Lo scrittore innamorato del mondo
Ciò che il grande scrittore ci trasmette
non sono le sue parole,
ma il respiro nel momento dell’ispirazione.
(Natalie
Goldberg)
Oggi voglio
introdurre il post con un brano tratto dal manuale “Scrivere Zen” di Natalie
Goldberg:
“Il nostro scopo”, dice Katagiri Roshi, “è
quello di essere premurosi e gentili verso tutti gli esseri senzienti, ogni
istante e per sempre”. Questo non significa mettere su carta una bella poesia e
sputare sulla nostra esistenza, maledire la macchina che non parte e tagliare
la strada agli altri automobilisti. Significa prendere la poesia dalla
scrivania e portarsela dietro anche in cucina. Ecco come noi scrittori possiamo
sopravvivere in quanto tali, per quanto irrisorio sia il nostro contributo all’economia
nazionale, e per quanto scarso sia il riconoscimento che ci viene dato. Noi non
scriviamo per soldi o per il riconoscimento, anche se indubbiamente sarebbe una
gran bella cosa. Il nostro segreto più profondo è che scriviamo perché amiamo il mondo.
E perché allora non deciderci a portare questo segreto insieme a noi, nei
salotti e nelle verande, in giardino e al mercato? Che tutto fiorisca: la
poesia e colui che la scrive.
Sarebbe bello riuscire a vivere la scrittura sempre in questo modo, vero? Purtroppo noi autori portiamo sulle spalle i fantasmi dei nostri vissuti irrisolti, e volenti o nolenti finiamo per riversarli sulla pagina.
Con il passare
degli anni e l’aumento dei volumi nella mia libreria ho concluso che, oltre
alla categoria desumibile dall’estratto citato, ne esistono altre due, meno
politically-correct ma ugualmente interessanti sul piano letterario. Prima di descriverle, però, voglio spiegarvi come
ho interpretato le parole di Natalie Goldberg: solo in questo modo potrete
comprendere il rovescio della medaglia.
Tengo a
precisare che le mini-analisi presentate in questo articolo non sono state
estirpate da qualche manuale, ma sono frutto delle mie considerazioni personali,
e quindi confutabili.
LO SCRITTORE INNAMORATO DEL MONDO
Ci sono autori che sono riusciti a vivere la propria
arte come un atto di non aggressione, a farla fiorire nella propria vita
quotidiana in un rapporto di totale sintonia con l’universo. La loro
sensibilità, unita alla volontà di attribuire a ogni attività un significato
spirituale (attenzione: non religioso) li
porta a vedere la bellezza in ogni essere umano e a creare con gli altri un
rapporto empatico, privo di pregiudizio. Ogni volta che parlano con qualcuno
sentono la sua anima vibrare, e tale capacità di percezione è messa al servizio
dei loro personaggi. Non importa quale sia la differenza biografica, anagrafica e contestuale:
quando uno di questi soggetti si siede al pc, le due personalità si fondono. La
profondità psicologica è disarmante; l’amore nei confronti dei protagonisti,
tangibile. Essi non sono il cassonetto dentro cui l’autore riversa le proprie
frustrazioni e mancanze, ma frammenti della sua anima che si sono staccati da
lui per raggiungere gli altri.
Amare il mondo,
tuttavia, non significa essere compiacente o succube: la critica sociale è
spesso presente nelle opere di questi scrittori, ma si veste d’ironia, non
scade mai in un mugugno fine a se stesso ed evita di essere gratuitamente
violenta. Chi ha l’anima in pace, infatti,
non ha bisogno di dimostrare niente. Può vivere la propria arte con onestà e
dire ciò che pensa nel pieno rispetto non solo del lettore, ma anche di coloro
che suscitano il suo disappunto. Qualche esempio? Eric Emmanuel Schmitt ha un aspetto
da comico di Zelig, mette allegria solo a guardarlo. Le sue opere sono
attraversate da un’ironia bonaria, sia quando tratta di sentimenti ed erotismo
(“La giostra del piacere”), sia quando analizza la psiche femminile (“La donna
nello specchio”), sia quando descrive una cultura lontana (“Ulisse da Baghdad”
o “I dieci figli che la signora Ming non ha mani avuto”). Riesce sempre a mostrare i lati più cupi
dell’anima umana, a muovere il lettore verso riflessioni esistenziali complesse
ma, al contempo, a strappargli un sorriso. Allo stesso modo, David Grossman, oltre
a essere da anni attivo per la pace tra Israeliani e Palestinesi scrive
romanzi che, pur affrontando tematiche di peso quali la shoah (“Vedi alla
voce:amore”) o il disagio giovanile (“Qualcuno con cui correre”) sono un
distributore automatico di energia positiva.
LO SCRITTORE IN BILICO
Alcuni autori
hanno voci forti ma anime fragili, vivono come se fossero su un’altalena. Esiste
un abisso tra l’amore profondo che nutrono per il mondo quando lo sbattono
sulla pagina e il disinteresse (a volte sconfinante nel il risentimento) vissuto
invece a contatto con la dura realtà. Hemingway, per esempio, scriveva della sovrumana
pazienza di Santiago il pescatore, ma appena terminata la sua sessione andava a
ubriacarsi o tiranneggiava la moglie. Niccolò Ammaniti definisce
se stesso un “sociopatico vero”: durante una conferenza tenuta a Sanremo un
paio d’anni fa, raccontò che da ragazzo, in occasione di una festa di
Carnevale, si travestì da morto e trascorse la serata sdraiato sul divano. Ciò
nonostante sa creare storie i cui personaggi esprimono sentimenti al massimo
livello di autenticità (“Io non ho paura”), ed esortano il lettore a cercare la
poesia nello schifo, una fiammella di speranza nella notte più cupa, una
redenzione là dove trovarla sembra improbabile (“Ti prendo e ti porto via”; “Come
Dio comanda”). Andrea
De Carlo è sempre stato considerato
uno dei maestri della letteratura contemporanea, ma ultimamente indugia un po’
troppo sui propri complessi e, durante le puntate del reality Master Piece,
pare abbia messo in tavola una spocchia da premio Nobel. Accanto a loro tanti
altri, intenti a far indossare al proprio malessere interiore una maschera
socialmente accettabile, ma ancora incapaci di staccarsi da un ego conflittuale
e criticone. Forse va bene così: se facessero pace con la realtà, perderemmo
tantissime opere interessanti.
LO SCRITTORE ALIENATO
Difficilmente chi ha una mente creativa riesce ad
accettare a capo chino i valori delle masse e ad accontentarsi di una felicità
preconfezionata, perché le sue energie psico-fisiche spaziano in universi che
la gente comune non riesce nemmeno a contemplare. Tra queste persone ce ne sono
alcune la cui sensibilità, prerogativa
di poche anime speciali, non è adeguatamente sublimata e si trasforma in male
di vivere. La loro ricerca interiore e la necessità di trovare risposte esistenziali
soddisfacenti le spinge a nutrire un costante bisogno di “qualcosa in più”: non
importa che si tratti di amore, di religione, di musica o di droga, purché
consenta di evadere da un mondo che non si percepisce come proprio.
Tale disprezzo per la realtà accomuna diversi
artisti, vissuti in luoghi e in tempi diversi. Per loro l’alienazione è
ricercata, desiderata, quasi costituisse la base stessa dell’arte.
Seneca è stato il primo grande depresso della
storia:
“La mia
giovinezza sopportava agevolmente e quasi con spavalderia gli accessi della
malattia. Ma poi dovetti soccombere e giunsi al punto di ridurmi in un'estrema
magrezza. Spesso ebbi l'impulso di togliermi la vita, ma mi trattenne la tarda
età del mio ottimo padre. Pensai non come io potessi morire da forte, ma come
egli non avrebbe avuto la forza di sopportare la mia morte. Perciò mi imposi di
vivere; talvolta ci vuole coraggio anche a vivere.” (Lettere a Lucilio, 78, 1
-2)
Per lui, l’
otium contemplativo era finalizzato a ricercare dentro di sé una sicurezza
che non si poteva trovare al di fuori, ma della cui esistenza si sentiva certo.
Baudelaire parlava
di spleen e cercava consolazione in una vita dissoluta. Dumas beveva assenzio a colazione. Virginia Woolf soffrì
per tutta la vita di sindrome bipolare, fino al suicidio.
Non mi vengono in mente, al momento, autori contemporanei
che possano essere inseriti in questa categoria. Probabilmente diventeranno
famosi postumi, e tra trent’anni mi ricorderò di parlarvi di loro.
Il lancio della patata bollente.
Cosa ne pensate della mia riflessione? Quali altri autori da me non citati inserireste in queste
categorie?
La mia autrice preferita, Ursula Le Guin è certamente una scrittrice innamorata del mondo. Le sue storie possono anche essere dolenti, ma c'è una bellezza cristallina nella sua prosa e un senso di comunanza verso tutti gli esseri umani che non fa venire dubbi sulla categorizzazione. Come scrivi, non si tratta di raccontare un mondo edulcorato, ma di riconoscere sempre l'uomo nell'uomo, anche quando è doloroso farlo. Nel mio piccolo credo anch'io di essere innamorata del mondo, anche se non sono certo immune all'astio o ai momenti di depressione che, ovviamente, fluiscono anche nella scrittura.
RispondiEliminaInizialmente avrei voluto citare tra gli esempi anche voi amici blogger, e quella era proprio la categoria nella quale avrei voluto inserirti. L'autore innamorato del mondo, infatti, non parla solo di cose belle, perché l'amore non si vede nel tipo di storie che decide di narrare ma nel suo atteggiamento: anche quando parla di morti ammazzati, lo fa con rispetto. Un esempio di giallista innamorato del mondo? Michel Bussi. Ho letto di recente "Ninfee nere" e "un aereo senza di lei", e devo dire che rientra perfettamente nella categoria.
EliminaAnch'io mi considero innamorata del mondo sebbene, come tu stessa fai notare, non sono immune alle emozioni negative. Ciò che fa la differenza, rispetto a uno scrittore in bilico, è la capacità di non lasciarsi dominare da dolore e rancore, non trasformarli in uno stile di vita.
A me viene in mente Mishima, che non era proprio serenissimo. Ti dirò, sono attratta dagli scrittori tormentati, dai "belli e dannati" che si raccontano, non nelle autobiografie, ma dentro storie in cui portano se stessi e la propria vita. A pensarci anche Leopardi era fortemente ispirato dal suo pessimismo (e, infatti, mi piaceva un sacco.), sebbene poi gli autori che mi piacciono di più o mi sono piaciuti, Ammaniti e De Carlo, siano inseriti nella categoria di scrittori in bilico.
RispondiEliminaBella la visione della Goldberg: "Il nostro segreto più profondo è che scriviamo perché amiamo il mondo", ma come dici tu, non sempre siamo ispirati da questo sentimento.
Ho voluto inserire Ammaniti e De Carlo nella categoria degli scrittori in bilico perché, quando penso a uno scrittore alienato, mi viene in mente qualcuno che sia completamente fuori dal sistema. Loro, bene o male, seguendo i canali di pubblicazione tradizionali, hanno trovato un compromesso. Inoltre hanno partecipato a diverse trasmissioni tv, e trovato il modo per farsi conoscere a prescindere da un carattere un po' orso. Inoltre, dalle loro pagine traspare un amore per il mondo che, seppur frustrato e deluso, continua a esistere. Allo stesso modo, Leopardi, era difficile da inserire in una categoria, e quindi l'ho lasciato perdere. è vero che ha avuto una vita isolata, ma nemmeno poi così tanto, perché ha viaggiato molto. E anche il suo pessimismo, secondo me, non nasce dal disprezzo per il reale, ma da una condizione esistenziale difficile da sopportare. Metterlo negli alienati, per quanto sensato, mi sarebbe sembrato un po' qualunquista. :)
EliminaQuesta volta non sono stato il primo a commentare XD
RispondiEliminaMeglio così, perché alla discussione sto per dare un contributo..fuori tema. Non troppo, ma fuori tema comunque. Volevo infatti parlare del mio punto di vista di blogger...
Amare il mondo. In fondo è proprio così: io amo il mondo. Cito un esempio banale: a parte i fenomeni atmosferici estremi (alluvioni, i caldissimi delle estati anni 2000 e i nevoni apocalittici), adoro la stessa concezione di tempo: la pioggia autunnale, le belle giornate soleggiate di maggio e giugno, quelle di dicembre e gennaio, la leggeri nevicate, sentire il garbino o il maestrale; adoro godermi queste diverse condizioni climatiche nella mia passeggiata mattutina (e scegliere l'abbigliamento adatto).
Noi blogger amiamo il mondo: restituiamo pezzi di questo mondo nei nostri scritti, siano essi brevi o corti.
Personalmente mi sento però anche un po' in bilico: mi ritrovo nell'esempio di Ammaniti, dello scrittore che poi alla festa si veste da morto e si mette sul divano, o che veste i panni..della colonna. A volte mi sento a disagio: quando ero più piccolo sempre per un complesso di inferiorità nei confronti degli altri. Ora in realtà anche perché tendo ad estraniarmi per osservare gli altri. Non sono un pettegolo, né un voyeur. Ma mi piace osservare. Vedere volti, vestiti e comportamenti degli altri. Immaginare. Penso che sia una sorta di inclinazione: se fossi più costante e più abile, probabilmente potrei tirare fuori scritti e storie molto interessanti. Ma poi non sempre si ha la forza per tradurre pensieri e sensazioni e metterli su carta...
E d'altra parte la mia condizione rispetta quella di essere in bilico, perché il 95% delle volte non riesco a esprimere i mille pensieri, sensazioni, le mille osservazioni...
Quando nei nostri scritti mettiamo rabbia e delusione..amiamo comunque il mondo, perché il mondo non è solo luce, ma anche buio.
Ad ogni modo sì...amo il mondo. Magari meno le persone: ma qui è colpa mia, perché dalle persone non riesco a farmi amare abbastanza.
Perché fuori tema? Non lo sei per nulla. :-)
EliminaEssere in bilico vuol dire essere proprio come tu di descrivi, ovvero una persona che ama il mondo ma non riesce a esprimere questo amore fino in fondo, oppure lo esprime solo quando scrive. Ha sbalzi d'umore, la persona in bilico. Oscilla continuamente tra ciò che vorrebbe essere e ciò che è ma, una volta che si siede davanti al pc, riesce a tirar fuori la propria anima più bella e più pura.
Anch'io sono stata in bilico per tanti anni, alle prese con costanti oscillazioni umorali. Adesso, invece, mi sto avvicinando sempre di più alla prima categoria: amo il mondo al 100%, anche nei momenti più bui. E mi sento sempre meno vittima di un ego un po' misantropo. Libera, forse. E comunque disposta a trovare in me risorse sempre nuove.
Anch'io amo tutte le stagioni e tutte le condizioni climatiche. La natura è ciclica, quindi non riesco ad accettare un'estate eccessivamente piovosa, o un inverno caldo come quello 2015-2016, quando il 10 gennaio c'erano 20 gradi. Queste situazioni mi fanno sentire sfasata, come se ci fosse in me qualcosa che non va.
Per fortuna che esiste anche la terza categoria, altrimenti io non potrei scrivere :D .
RispondiEliminaPer quanto riguarda autori famosi della terza categoria, comunque, in realtà ce ne sono anche di relativamente moderni. Mi viene per esempio in mente Bukowsky, oppure Philip Dick. E forse si può includere anche Stephen King: forse ora non lo è più, ma negli anni ottanta era sempre sotto l'influsso di alcol e droga, come racconta in "On Writing" - anche se poi si è disintossicato. E di sicuro andando a scavare se ne possono trovare altri :) .
Oh cavolo, King! Perché non ci ho pensato? Pensa che ieri ho rimuginato a lungo per trovarne uno vivente, ma quando la mente va in fissa c'è il vuoto.
EliminaInvece io ti metterei tra gli autori in bilico, perché riesci a immedesimarti nei tuoi personaggi al punto da commuoverti, non c'è un disprezzo per il reale così palese. :)
"Scriviamo perché amiamo il mondo".
RispondiEliminaQuesta frase mi ha folgorato. Non mi sento di aggiungere nient'altro. Wow.
Leggi il libro.
EliminaSono sicura che ti piacerà molto. :)
Personalmente ho trovato conforto nella rabbia e nella durezza di linguaggio di Edward Bunker, ma questo attiene a un preciso momento della mia vita. Più in generale mi ritrovo in linea con il pensiero di Marina (Guarneri), ovviamente per ciò che concerne il romanzo.
RispondiEliminaè un autore che non conosco.
EliminaFarò una ricerchina. :)
Di certo sarebbe bello coniugare l'ispirazione artistica con la crescita personale e diventare
RispondiEliminaattraverso la scrittura migliori.
Ma spesso i due aspetti non fanno binomio e in tanti casi non c'è nè l'uno nè l'altro, ma solo
una valutazione di marketing per costruire un romanzo appetibile.
La vera arte viene dalla solitudine spesso, dall'essere disadattati,
dall'essere in conflitto ma comunque da un'anima
che vibra, che percepisce intensamente e sa creare. Un'anima turbata che non riesce a uscire
dal suo disagio, non riesce a dialogare con la sua ombra e volare verso nuovi orizzonti.
Ma tuttavia riesce a risuonare con le nostre parti di sofferenza. Il valore artistico non procede
quindi di pari passo con la felicità interiore e tra i due forse preferisco la seconda.
P.S. tra gli autori nobili come arte e "dannati" non dimentichiamo Sylvia Plath.
Secondo me, la nascita dell'arte dal disagio non è una regola generale. L'arte nasce dalla capacità di sentire e percepire le proprie emozioni in modo più vivo e intenso, rispetto a ciò che non crea. Nasce dalla capacità di prendere queste emozioni e sublimarle, farle vivere in uno scritto. Ma esse non per forza devono essere negative: ci sono tanti scritti che nascono dalla gioia. :-)
EliminaAnche a me, come ad Antonella, è venuta in mente Ursula Le Guin con la sua accettazione dell'umanità, in qualunque forma si esprima. In comune, questi tre tipi di scrittori, hanno la capacità di vivere intensamente la positività come la negatività. Nel secondo caso, la sofferenza deve essere profonda. Lo dico da esterna, perché non è questo il mio modo di vivere la scrittura.
RispondiEliminaNeanche il mio. Forse lo era all'inizio, ma ora non più. Negli ultimi dieci anni ho sviluppato una sorta di "pensiero positivo" che mi ha staccato dalla visione nera del mondo. Non mi sento più in bilico: amo il mondo, e uso le mie emozioni negative in senso costruttivo. :)
EliminaTra gli scrittori in bilico mi viene in mente Cesare Pavese, ricordo che a sedici anni lessi il suo diario Il mestiere di vivere, diario postumo perché si è suicidato a 50 anni, e mi innamorai follemente di lui. Lessi tutti i suoi libri scoprendo un autore intenso e bravissimo. Tra gli autori contemporanei metterei Gianrico Carofiglio tra gli scrittori innamorati del mondo, lui trasmette positività nei libri e (per quel poco che so) nella vita.
RispondiEliminaPer me, invece, Pavese è alienato, non in bilico, e la fine che ha fatto lo dimostra. :-)
EliminaInvece sono d'accordo per la catalogazione di Carofiglio, che tra l'altro mi piace moltissimo.
Ciao Chiara, rispondo volentieri alla patata bollente. Nella prima categoria inserisco senza dubbi Flannery O' Connor, che definirei la Grande anima. Ogni rigo della scrittrice americana è un inno alla vita. Poi c'è Ada Merini e i suoi versi: "Sentire è il verbo delle emozioni, ci si sdraia sulla schiena del mondo e si sente...".
RispondiEliminaNella terza categoria metto invece Jerry Stahl, autore di "Stronzate che capitano quando non muori giovane" e di "mezzanotte a vita" dove parla della sua terribile esperienza di tossicodipendenza
Non conosco Jerry Stahl, ma andrò a documentarmi, perché mi interessa molto. D'accordissimo, invece, per la catalogazione degli altri due. :)
EliminaMolto bello questo post, mi è piaciuta molto questa riflessione sugli autori e il loro rapporto con se stessi e col mondo intorno a loro. :)
RispondiEliminaUno scrittore innamorato del mondo per me è sicuramente Asimov, mentre uno alienato direi che senz'ombra di dubbio è Dick. Invece un autore in bilico credo che un ottimo esempio sia quello di Violeta Parra.
Grazie, Marco. Sono contenta che il post ti sia piaciuto. :)
EliminaConosco poco gli autori che citi, anche se li ho letti. Ci rifletterò su. :)
Attenta e piacevole la tua riflessione, che si condivide sia per tecnicità, sia per indole. Gioco seria volendola paragonare come una parte della nota frase intera legata ai capi di colore nero “sta bene con tutto”: l’indole, la natura sta.
RispondiEliminaDentro di noi, siamo “noi” e ci porta qui, tutti: autori, altri esperti di scrittura ed io “fuori dal cantiere lavori” in una reciproca e vitale serie di reazioni dopo la tua scrittura, la partecipazione con la lettura e l’interfacciato commento individuale a sua volta letto (o…saltato?) dai presenti.
Una lettura sempre molto partecipata - perché è sentita prima che solidale - solo vittima, a volte, del tempo a disposizione o quindi condizionata dall’umore che diventa ambiente di lettura o predisposizione.
Quasi come fosse una votazione scelgo sicuramente e subito “lo scrittore innamorato del mondo”, figura che emanando la passione del suo sangue nelle vene, di fatto, vive etereo ma troppo presente sulle cose materiali ed immateriali della vita, se non oltre. Persona di parola che vola libero nelle certezze dei valori umani - auspicati perché naturali e nobili - tanto da essere celebrati quando offesi.
Nella travagliata situazione di salute e morte di mio Papà ho pescato nella corrente delle mode, ma solo per il tema trattato, conoscendo tardi (proprio perché Big, V.I.P. e mondiale, ma io tarda e bastian contraria) quel…”la qualunque” di Philip Roth, con il suo “Patrimonio-Una storia vera”.
Per me lezione di vita, o capolavoro, sicuramente troppo coinvolta ed attratta da quel mio/suo momento, non posso che permettermi di osare definire Lui, uno scrittore innamorato del mondo e dinamico acuto, sarcastico osservatore, sensibilissima anima.
Del romanzo dirti di aver ritrovato suoi solchi autobiografici lo reputo scontato. Ho trovato le sue radici, forse quasi un intero albero genealogico…
La sua rassegnata debole impotenza nelle vicissitudini narrate su tutto il percorso, gli attimi della malattia del padre, sono state per me la drammatica visione anticipata di cosa mi sarebbe successo, a tal punto che la morte davvero si è trasformata in vita e viceversa.
Appaiono temi cupi, drammatici ed avversi, che idealmente potrebbero sembrare estranei a quella luce o forza positiva ed aperta che gli amanti del mondo vorrebbero.
Ed invece taluni passi sono proprio “vivere”, ergo amare senza limiti perché il personaggio è persona (l’autore) che non scrive un romanzo, ma la ciclicità tra due generazioni (tema a me molto caro) se non anche la materializzazione non espressa di una terza e precedente, tanto è la potenza delle emozioni, la profondità dell’essere.
Tratta della morte, ma Roth lo senti proprio come trasmutare, lo percepisci – alla dipartita del padre - dalla condizione di figlio a persona adulta: lui, che passata la tempesta acuta del dolore, va, solo, ma finalmente e purtroppo slegato dai lacci genitoriali, consapevole di aver assunto su di sé l’eredità spirituale del padre.
Percepisco le stesse spinte, forza e dolori di un parto, seppur racconto su due uomini…Autore non ricercato, ma ricercato il tema che mi annientava nel 2015 e mi ha rassicurato perché “vedo” il mio papà in ogni dove, grazie al dolore, con la sua stessa autorevolezza severa, ma libero lui ed io.
Perché il dolore libera.
Quando sarò posata mentalmente vorrò dedicarmi al Roth come si deve, sperando di ritrovare temi esistenziali, umanesimo, critica e senso della vita, proseguendo con il suo “La macchia umana".
Grazie, a presto e complimenti per il tuo blog.
Hai secondo me, con questo bellissimo commento, centrato il punto e intercettato una delle caratteristiche fondamentali dello scrittore innamorato del mondo. Egli non nega infatti l'esistenza del dolore, né si piega a scrivere solo di cuore, amore e positività, ma riesce a portare la luce anche nelle tematiche più cupe, accendendo in chi legge la speranza, il desiderio di trascendere un pessimismo che tanto ci fa comodo perché ci protegge dalla responsabilità, e il coraggio di saltare il fosso per essere finalmente responsabili della propria realtà.
EliminaAttenta e piacevole la tua riflessione, che si condivide sia per tecnicità, sia per indole. Gioco seria volendola paragonare come una parte della nota frase intera legata ai capi di colore nero “sta bene con tutto”: l’indole, la natura sta.
RispondiEliminaDentro di noi, siamo “noi” e ci porta qui, tutti: autori, altri esperti di scrittura ed io “fuori dal cantiere lavori” in una reciproca e vitale serie di reazioni dopo la tua scrittura, la partecipazione con la lettura e l’interfacciato commento individuale a sua volta letto (o…saltato?) dai presenti.
Una lettura sempre molto partecipata - perché è sentita prima che solidale - solo vittima, a volte, del tempo a disposizione o quindi condizionata dall’umore che diventa ambiente di lettura o predisposizione.
Quasi come fosse una votazione scelgo sicuramente e subito “lo scrittore innamorato del mondo”, figura che emanando la passione del suo sangue nelle vene, di fatto, vive etereo ma troppo presente sulle cose materiali ed immateriali della vita, se non oltre. Persona di parola che vola libero nelle certezze dei valori umani - auspicati perché naturali e nobili - tanto da essere celebrati quando offesi.
Nella travagliata situazione di salute e morte di mio Papà ho pescato nella corrente delle mode, ma solo per il tema trattato, conoscendo tardi (proprio perché Big, V.I.P. e mondiale, ma io tarda e bastian contraria) quel…”la qualunque” di Philip Roth, con il suo “Patrimonio-Una storia vera”.
Per me lezione di vita, o capolavoro, sicuramente troppo coinvolta ed attratta da quel mio/suo momento, non posso che permettermi di osare definire Lui, uno scrittore innamorato del mondo e dinamico acuto, sarcastico osservatore, sensibilissima anima.
Del romanzo dirti di aver ritrovato suoi solchi autobiografici lo reputo scontato. Ho trovato le sue radici, forse quasi un intero albero genealogico…La sua rassegnata debole impotenza nelle vicissitudini narrate su tutto il percorso, gli attimi della malattia del padre, sono state per me la drammatica visione anticipata di cosa mi sarebbe successo, a tal punto che la morte davvero si è trasformata in vita e viceversa.
Appaiono temi cupi, drammatici ed avversi, che idealmente potrebbero sembrare estranei a quella luce o forza positiva ed aperta che gli amanti del mondo vorrebbero. Ed invece taluni passi sono proprio “vivere”, ergo amare senza limiti perché il personaggio è persona (l’autore) che non scrive un romanzo, ma la ciclicità tra due generazioni (tema a me molto caro) se non anche la materializzazione non espressa di una terza e precedente, tanto è la potenza delle emozioni, la profondità dell’essere.
Tratta della morte, ma Roth lo senti proprio come trasmutare, lo percepisci – alla dipartita del padre - dalla condizione di figlio a persona adulta: lui, che passata la tempesta acuta del dolore, va, solo, ma finalmente e purtroppo slegato dai lacci genitoriali, consapevole di aver assunto su di sé l’eredità spirituale del padre.
Percepisco le stesse spinte, forza e dolori di un parto, seppur racconto su due uomini…Autore non ricercato, ma ricercato il tema che mi annientava nel 2015 e mi ha rassicurato perché “vedo” il mio papà in ogni dove, grazie al dolore, con la sua stessa autorevolezza severa, ma libero lui ed io.
Perché il dolore libera.
Quando sarò posata mentalmente vorrò dedicarmi al Roth come si deve, sperando di ritrovare temi esistenziali, umanesimo, critica e senso della vita, proseguendo con il suo “La macchia umana" (scusa il tomo, ma ero, sono presa...)
Complimenti per il tuo blog ed il tuo stile ed un grazie per la possibilità di espressione qui.