Una verità interiore che trascende l'autobiografia
Non si può inseguire
affannosamente la bellezza con la paura alle calcagna.
(Nathalie Goldberg)
Quando un aspirante scrittore
decide di confidarsi con me a proposito dei propri lavori, noto una costante. Le
prime esperienze narrative contengono numerosi riferimenti autobiografici. C’è
un profondo desiderio di mettersi in gioco. Di esprimersi. Di guardare negli
occhi l’amore di un tempo. Di estirpare il dolore per la morte dei genitori. Descrivere
un’amicizia. Oppure, semplicemente, ripercorrere le tappe principali della
propria esistenza purificandola.
Scagli la prima pietra chi è
senza peccato: non è capitato anche a voi di prendere in mano una penna mossi
da un viscerale desiderio di ricomprare una forma di libertà? Avete mai scritto
una lettera, dopo un litigio, osservando l’incazzatura evaporare lentamente
fino ad annullarsi? E, rileggendo le vostre antiche parole, quante verità
psicologiche si sono palesate davanti ai vostri occhi? Quante realtà interiori,
un tempo evanescenti, apparivano improvvisamente chiare?
A me è successo tante volte. Lo
ammetto senza remore. Da adolescente, ho calcato la mano su mille diari. Non ho
mai scritto una vera e propria autobiografia, ma per anni ho dato vita, nei
miei racconti, a personaggi clone e situazioni note. Accetto quei lavori come
parte del mio percorso ma ne prendo le distanze. Rileggendoli, non mi riconosco
più nelle mie antiche parole. Credo sia normale. Crescendo, si guarda al
passato con occhi diversi. La consapevolezza cambia. Subentra il giudizio,
insieme al bisogno di sperimentare nuove strade, di uscire dai confini della
propria quotidianità. In fondo, le nostre vite sono ordinarie. A tratti banali.
Un romanzo ha bisogno di un pizzico di pepe in più. Dunque si decide di creare
qualcosa di nuovo, che trascenda la nostra storia individuale.
Quanto vi sto raccontando capita
a molti. Nonostante ciò, io tendo ugualmente ad incentivare chi sente il
bisogno di raccontare di sé. Credo che la scrittura non debba conoscere forzature
e ciò che conta sia cominciare. Le tappe successive, si raggiungono
spontaneamente, man mano che si acquista padronanza della tecnica e si prova il
desiderio di varcare i confini, parlare con la gente. Per arrivare a questo, si
deve essere pronti.
Studiando la filosofia zen, ho
maturato la convinzione che ogni informazione registrata nel corso della vita
lasci un impronta energetica su di noi. Tutto è materia, anche l’invisibile.
Ogni pensiero si imprime nella nostra anima. Se soffochiamo la rabbia senza
scaricarla in modo sano – ad esempio facendo una bella corsa al parco – ci rimane
incastrata addosso. Se non esprimiamo a fondo il dolore per un amore finito,
questa sofferenza rimane nel cuore e lo congela. Forse, la separazione si supera
mentalmente. Si può perdonare con il cervello, accettando razionalmente la
situazione. Ma occorre un profondo lavoro di pulizia per tornare ad essere
completamente liberi. E la scrittura può aiutare questo processo di guarigione
se ci si relaziona ad essa con il cuore leggero e libero di condizionamenti.
Quando cominciamo a scrivere
partendo da noi stessi, può essere necessario accettare di vomitare schifezze
per cinque anni di fila, perché nel corso della vita ne abbiamo accumulate
molte, ma molte di più, anche se siamo stati ben felici di far finta che non ci
fossero. Siamo costretti ad affrontare la nostra inerzia, le nostre
insicurezze, il nostro rancore e, soprattutto, la paura di non avere niente di
significativo da dire. Solo quando la zavorra è scaricata, si passa alla fase
successiva: decidiamo di scrivere una storia completamente “inventata”. All'inizio, ci sembra quasi di tradire noi stessi. Di perderci. Di staccarci da un passato che riteniamo importante. Ma le
virgolette non sono messe a caso. Siamo davvero in
grado di creare un romanzo dal nulla, oppure c’è sempre un residuo, un
reflusso, una muta testimonianza di ciò che siamo? Non stiamo scrivendo un
saggio sulle uova di struzzo, o un manuale di istruzioni del nuovo televisore
samsung. Si tratta di narrativa. La fantasia è stimolata. Vola. E, da qualche
parte, deve pur trarre origine.
I personaggi del romanzo che sto
scrivendo appartengono alla mia generazione. Vivono in una città che conosco.
Alcuni si sono conosciuti quando erano studenti fuori sede. E le somiglianze con
la mia vita personale finiscono lì. Eppure in ogni singola pagina – tranne quelle
che mostrano un auto-protettivo trionfo della freddezza – c’è molto di me e
della mia energia. Credo che nessuno di noi sia mai completamente separato da
ciò che scrive. L’inconscio serpeggia. Si insinua fra una parola e l’altra. Anche
il personaggio più distante dal nostro sentire può essere l’emblema di una tendenza,
di una paura, di un desiderio. E, quando ce ne rendiamo conto, ci sentiamo
spaventati. Cerchiamo scappatoie e stratagemmi. Ad esempio, decidiamo di uccidere
il poveraccio. Lo facciamo diventare un comprimario. Creiamo una
mirabolante architettura di sottotrame, ci concentriamo sullo stile e non sulle
emozioni, abbandoniamo la nostra opera convincendoci di non essere capaci a
scrivere.
Qualche giorno fa, rileggendo
alcune scene scritte lo scorso inverno, ho compreso in modo violento e brutale
quanto sia importante abbattere i propri muri interiori. Buttarsi a capofitto
nella prima stesura senza pensare ad eventuali conseguenze editoriali può aprirci
ad una nuova forma di comunicazione ed esprimere la nostra verità anche
attraverso la finzione. Arrivati alla scena finale, sentiremo l’anima sudata. Avremo
capito molto di noi stessi e potremo affrontare la revisione con un altro
spirito, più professionale ed oggettivo.
È vero che si devono affrontare
violente resistenze, per arrivare a ciò, ma abbiamo l’opportunità di non
scappare e di non lasciarci travolgere, ma di guardarle nero su bianco e vedere
cosa hanno da dire le loro stupide voci. Quando ciò che mettiamo su carta
sboccia dal retro di questo cumulo di spazzatura o di questioni irrisolte, lo
scritto possiede una stabilità tutta particolare. La sincerità dona sicurezza
artistica. Se non avremo paura del cuore che batte dentro di noi, non avremo
timore nemmeno delle critiche esterne: i sussurri che smontano la nostra
creatività sono semplicemente dei demoni, dei guardiani che proteggono il vero
tesoro, i primi pensieri della mente.
Quando apro i miei vecchi
quaderni, penso di essere stata un po’ troppo indulgente con me stessa, ed
essermi concessa troppo tempo per vagare nei meandri del pensiero discorsivo. A
dire la verità, mi è successo anche con scritti recenti. Avrei potuto darci un
taglio anche prima ed affrontare, senza timori il nucleo di ciò che desideravo
raccontare, senza tirare il freno a mano per proteggermi dalle mie stesse
emozioni.
Ciascuno di noi ha il diritto, e
forse anche il dovere, di guardare ai propri scritti con l’atteggiamento di un
testimone privo di giudizio. C’ è sempre una ragione interiore, dietro ciò che
scriviamo. Se uno ha
scritto una storia di sesso torbido, può aver avuto una necessità di sublimare
alcuni istinti, alcune tendenze mai sopite. Un romanzo focalizzato sulla
tossicodipendenza – se non ha un intento puramente documentaristico – può evidenziare
una difficoltà a separarsi da ciò che fa male ma colma i nostri vuoti. Occorre buttarsi
a capofitto in tutto ciò. Occorre farsi pervadere dalle proprie parole e sentirle
vibrare nelle vene.
Ho cercato mille volte di
proteggermi dalla storia che intendo raccontare. Ma nel momento in cui sono
riuscita a guardarla con onestà, ho compreso quale fosse il mio messaggio. C’è
un pezzettino di me in ogni personaggio. Mi appartengono anche i loro difetti. O,
forse, soprattutto quelli. Ciascuno di noi ha la possibilità di
conoscere ogni aspetto di se stesso, anche quello più detestabile e
deprecabile, senza esaltarlo e senza criticarlo ma, semplicemente prendendone
atto. Quindi, forti di questa consapevolezza, siamo meglio attrezzati per
compiere una scelta in direzione della bellezza, della sollecitudine e di una
verità che non si concretizza nella biografia, ma assume un valore spirituale.
Avete mai fatto caso alla vostra presenza sulla pagina? In che modo situazioni e personaggi riflettono il vostro inconscio?
Avete mai fatto caso alla vostra presenza sulla pagina? In che modo situazioni e personaggi riflettono il vostro inconscio?
Guarda, Chiara... per quanto mi riguarda è in parte vero, ma non in modo così drastico.
RispondiEliminaAnzi, forse all'inizio ho raccontato di cose estremamente lontane da me.
In ogni caso, i miei personaggi hanno sempre qualcosa di mio, ma in modo free, forse per sapermeli gestire meglio... non so. Sicuramente non per esorcizzare qualcosa... diciamo che io bado più al lato ludico della faccenda :)
Grande post, comunque^^
Moz-
Ti ringrazio per il complimento :)
EliminaPerò non pensi che anche ridere di sé e concentrarsi sul lato ludico sia un modo per esprimere sé stessi e dare voci a processi inconsci?
Io mi sono concentrata sull'esorcizzazione degli istinti negativi, tuttavia esistono molti modi per dare voce e sfogo alle proprie dinamiche interiori. Ridere di se stessi, forse, è uno dei metodi più efficaci :)
Guarda, è possibilissimo che sia come dici.
EliminaIo continuo a vederla più sul lato "pratico" (ossia, se inserisco qualcosa di vissuto, riesco a raccontare meglio la situazione, coinvolgendo di più), ma sicuramente c'è qualcosa di più profondo. Magari solo edonismo, chissà :)
Moz-
Le spiegazioni razionali impoveriscono. La verità interiore sfugge al nostro controllo :)
EliminaIl lato pesantemente autobiografico l'ho lasciato in un paio dei miei primissimi racconti; dopo, mi sono comunque infiltrata dappertutto, ma un aspetto per volta e non tutta intera. Così tra i miei personaggi c'è chi disegna, chi pratica arti marziali, chi ama la natura e i cani... Il lettore non lo sa, ma di fatto mi sta conoscendo un pezzettino per volta. Anche mio figlio me lo ha detto di recente, dopo avere letto il nuovo YA: "Ma quanta roba c'è di te nei tuoi romanzi?".
RispondiEliminaChe sia importante scrivere per sciogliere i nostri nodi è verissimo, ed è anche uno degli argomenti nel mio prossimo libro su creatività e scrittura, che uscirà (salvo intoppi) a novembre. Niente male come autopromozione anticipata! ;)
Ti faccio un esempio: nel mio romanzo i personaggi importanti sono tre. Uno canta, una disegna e l'altro fa foto. C'è una propensione artistica più o meno evidente in tutti e tre, ma nessuno scrittore. E non ci ho riflettuto: mi è sorto spontaneo inserire questi elementi. Leggerò il tuo libro molto volentieri!
EliminaLa penso come Grazia: in tutto quello che scriviamo c'è qualcosa di noi, delle nostre esperienze e del nostro modo di pensare, è inevitabile e, secondo me, è anche giusto così. Il trucco forse sta nel saper usare ciò che abbiamo vissuto senza che il lettore se ne accorga, senza che il lato autobiografico salti fuori in modo palese a rovinare tutto. E dietro questo, come hai sottolineato nel tuo post, c'è molto molto lavoro!
RispondiEliminaSono d'accordo con te ed aggiungo che il riferimento alla nostra esperienza spesso può rendere un personaggio più completo. Io ad esempio tendo, ogni volta in cui il mio protagonista è nervoso, ad infilargli una sigaretta in bocca... l'essere fumatore, però, quaglia con la sua indole.
Eliminacome ben sai Chiara scrivo...
RispondiEliminauna persona "importante" una volta mi disse di scrivere quello che conosco...
ed io ho preso quella personcina che sono, e l'ho sviscerata tanto da trovarla...
una bellissima avventura, lo ammetto, ma poi mi domando, e come te mi chiedo, quanto sia giusto che la nostra penna parli di noi...
Io credo che non esista un concetto di "giusto" o di "sbagliato": la scrittura non è matematica. La cosa importante è che ciascuno faccia ciò che sente a prescindere dal risultato. In questo momento ho bisogno di raccontare storie di fantasia, ma questo non significa parlare di argomenti estranei: conosco l'animo umano, e c'è molto di me anche lì. Se qualcuno desidera invece raccontare la propria biografia perché no? Di solito raramente queste prime esperienze hanno uno sbocco letterario vero e proprio, ma sono comunque importanti
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