L'importanza delle parole - la sottile differenza fra "dovere" e "volere".


L'anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci.
(Charles Bukowski)


Tutto è iniziato da una semplice conversazione via e-mail con Salvatore Anfuso. Sono stata io a scrivergli privatamente, ispirata dal commento citato in questo post, per riflettere sull’uso di determinate parole nella nostra vita quotidiana.
Consapevole dell’impatto che il chiacchiericcio mentale ha sui comportamenti umani, ho voluto evidenziare come la differenza concettuale fra il “devo” e il “voglio” possa condizionare la nostra performance, sia nell’ambito della scrittura, sia in ogni altro campo d’azione. Ogni parola ha un’energia propria, che agisce sulle sinapsi generando reazioni emotive diverse a seconda del significato che siamo abituati ad attribuirle.  Pertanto, dobbiamo prestare attenzioni ai termini che scegliamo per orientare il nostro agire e per dare consigli agli altri. Dire a qualcuno “sei un cretino non ce la farai mai” non è come dirgli “forza e coraggio, non smettere di lottare”, vero?
Qualche giorno dopo, il diligente destinatario dei miei sproloqui epistolari ha redatto il post Il romanzo che scriverei, nel quale evidenziava che per lui scrivere è un dovere, in quanto gli consente di rendere onore a un talento naturale che diversamente andrebbe sprecato. Un assunto decisamente interessante, sul quale ho rimuginato nei giorni a venire e che ritengo meriti qualche considerazione soggettiva. Dopo tutto, sono stata io a risvegliare il mostro. Se non ne parlassi, l’argomento rimarrebbe monco.
Per prima cosa, occorre rispondere a un quesito fondamentale: cos’è il dovere?

Lasciamo perdere le definizioni riportate dai dizionari e analizziamo il lato soggettivo del termine.
Premetto che io ho una forte auto-disciplina, ma vivo malissimo le imposizioni esterne. Ho creato dentro di me una sorta di meccanismo stimolo-risposta tale per cui, se qualcuno mi dice “devi fare questo”, il mio cervello si orienta automaticamente nella direzione opposta. Non sopporto ricevere degli ordini, a meno che non siano legati al mio lavoro.  
Pertanto, per me il dovere rappresenta l’obbligo di fare qualcosa, anche quando non ne ho assolutamente voglia, per evitare conseguenze negative sulla mia vita. A volte questo imperativo nasce dalla mia coscienza ed è vincolato a determinati valori morali; altre dal desiderio di rendere felice qualcuno, da necessità professionali, da vincoli connessi al mio ruolo familiare e sociale.
Per esempio, so che tutte le mattine mi devo svegliare alle 7:00, devo prendere l’automobile e farmi 30 km per andare a Imperia, devo lavorare otto ore e poi devo percorrere il tragitto inverso per tornare a casa, anche quando piove, nevica e preferirei dormire fino a mezzogiorno.
Si tratta di una scelta? In parte sì. Dopo tutto sono io che ho firmato il contratto di assunzione. Nessuno mi ha puntato una pistola alla tempia. Ho accettato determinate condizioni liberamente, e ora sono tenuta a rispettarle, pena il licenziamento. Ho preso un impegno che mi vincola a determinate regole, che accetto con serenità perché mi danno qualcosa in cambio: lo stipendio a fine mese, un lavoro fisso con determinate garanzie contrattuali, (forse) una pensione. Quando il dovere si struttura in una determinata routine e presenta dei vantaggi, lo si può accettare anche con il sorriso.
Lasciamo perdere però quel territorio ibrido in cui il dovere e la volontà si incontrano: spesso la sensazione di essere obbligati a fare qualcosa si accompagna a una sofferenza di fondo, alla consapevolezza del fatto che da lì non si può sfuggire. Altro esempio: una mia amica ripete continuamente che deve dimagrire e deve mettersi a dieta. Essendo golosa, per lei si tratta di un sacrificio immenso, una cosa che non deciderebbe di fare se non fosse costretta da una situazione di sovrappeso e da qualche problema di salute. Ogni volta che pronuncia questa frase, si percepisce tutta la sua sofferenza.

A volte mi capita di considerare la scrittura un dovere, e non è un bene. L’affermazione  “io devo” ha sempre avuto un impatto negativo su di me, l’ho capito con le sigarette. Quante volte mi sono ripetuta “devo smettere”? Per dirla come l’ Ingegner Cane di “Mai dire goal”, mmmmmille mmmmillioni. Eppure non è mai servito a niente.
Nell’ultimo periodo, invece, ho iniziato a pensare che voglio rinunciare al fumo, per la mia salute e per il mio portafoglio. Non ci sono ancora riuscita del tutto, ma to riducendo tanto, e sono sicura che prima o poi mi stuferò. Un verbo a volte può fare la differenza.
Posso affermare con assoluta certezza, che io NON devo scrivere. Io voglio scrivere. Lo desidero con tutta me stessa. E lo faccio con gioia, sempre. Raramente mi capita di essere stanca o poco ispirata e di rimandare tutto a un momento migliore, perché “chi ama il proprio lavoro non lavora nemmeno un giorno nella vita”. Non ricordo chi abbia scritto questo aforisma, ma secondo me dice il vero: quando c’è passione, l’autodisciplina diventa una scelta libera e consapevole, è vissuta con serenità. Quindi, sedermi al computer è per me la cosa più spontanea del mondo, avviene senza alcuna forzatura.  
Una persona abituata a praticare sport può decidere di allenarsi quotidianamente, oppure due giorni alla settimana, oppure uno solo. Non ha bisogno di costringersi perché la sua passione è così radicata in lui che non può farne a meno, è quasi dipendente. Certo, se ha una gara (paragonabile ai nostri concorsi letterari o alle scadenze del blog) dovrà sforzarsi un po’ di più e mantenere ritmi serrati. Ci potranno essere momenti di calo della prestazione o giornate in cui lo sforzo psico-fisico è maggiore. Ma, nonostante questi blocchi temporanei, la sua passione e la sua energia lo spingeranno sempre nella medesima direzione.
La stessa cosa capita a me con la scrittura. Sento di non aver alcun bisogno di rigide tabelle di marcia o imposizioni che hanno il sapore di un diktat, perché la costanza è una condizione naturalmente connessa al mio amore per la narrativa.  La scrittura è una mia scelta. Non è un lavoro, non ho firmato un contratto con i miei personaggi, non ho vincoli di alcun tipo, ma (o forse per questo motivo) sono sempre andata avanti per la mia strada. Se ho la mia libertà espressiva, non mi serve altro per stare bene.

Per concludere.
Se avete letto con attenzione i paragrafi precedenti, avrete intuito quali sono i due elementi che – almeno a livello soggettivo – sanciscono la distinzione fra dovere e volere: gioia e amore.  
Queste due emozioni possono trasformare ogni obbligo in una scelta, riempire ogni attività quotidiana, anche la più rognosa, di luce e di energia positiva. Sono loro a girare la chiavetta che mi dà la carica.  
Io VOGLIO scrivere.
Io AMO scrivere.
Io provo GIOIA, quando scrivo.
Di conseguenza, io SCELGO di scrivere.
Io sono LIBERA di scrivere, e sono anche libera di non farlo. Invece, non sono libera di rimanere a casa se una mattina non ho voglia di andare in ufficio. Questa è la differenza fondamentale fra il dovere e il volere.

Il lancio della patata bollente.

Cos’è per voi il dovere? Cosa differenzia un obbligo da una scelta? E la scrittura in quale categoria rientra?

Commenti

  1. SCRITTURA ASSOLUTAMENTE VOLERE PIACERE lo metto anche in maiuscolo guarda, anche nei momenti in cui la scrittura si fa più pressante, rimane un piacere, faticoso, ma piacere. Questo per me è assai importante, quando - è successo - la scrittura è scivolata nel dovere avrei dovuto avere la capacità di fermarmi in tempo. Per il resto ho scritto giusto ora un post che parla anche di scelte, doveri, nell'ottica dell'organizzazione del tempo, mi pare complementare a questo tuo post in un certo modo. Un bacione Sandra

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    1. Leggerò volentieri il tuo post. Sicuramente occorre un minimo di costanza per portare avanti un progetto, specialmente complesso come un romanzo. Però quando si ama scrivere la disciplina diventa spontanea, non richiede alcun tipo di forzatura...

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  2. Ripeterei tutto quello che tu hai già detto in questo bell'articolo, perché vivo la scrittura esattamente come te: è una passione viscerale che "obbliga" ai suoi ritmi con tutta la gioia, la libertà e l'amore di cui è capace solo un impulso così forte. L'obbligo in questo caso non è un dovere imposto, ma la conseguenza voluta di un desiderio assecondato. (Sennò che ci farei io, a mezzanotte passata, con il computer acceso e la tastiera ancora calda?
    Non ho sonno... e scrivo!)


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    1. Esatto! è proprio quello che intendevo io. La scrittura nasce come un impulso primordiale, è un'ossessione sana che ci muove a fare ciò che desideriamo. Senza questa energia non riuscirei a portare avanti i miei progetti. A stressarmi ci pensa già il lavoro... :)

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  3. Scrivere è un piacere, ci mancherebbe. Diventa un dovere solo quando si sente la necessità interiore di scrivere su un certo argomento con spirito di denuncia. A me è successo qualcosa di simile in un paio di occasioni ma con risultati negativi, nel senso che i manoscritti che ne sono venuti fuori non mi hanno soddisfatto. É uno dei miei crucci da scribacchino.

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    1. Anche a me è successo di scrivere pezzi "di denuncia", ma non li ho mai percepiti come un obbligo, anzi ... mi faccio sempre coinvolgere in determinate tematiche e le affronto con molta verve e con molta passione. :)

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  4. La scrittura per me è un piacere e scrivere ogni giorno è la mia condizione ideale. E' però indubbio che nella mia situazione attuale vi sia subentrato anche un elemento di dovere perché se con il romanzo che sto scrivendo potrei cestinare tutto in un momento senza doverne rendere conto a nessuno eccetto me, nella blog novel non è così. In questo caso so che ci sono persone che ne attendono il seguito e il finale e se io mi stufassi di scriverla e scegliessi di interromperla, le conseguenze di questa scelta si estenderebbero anche a queste persone, a cui avrei portato via inutilmente del tempo e mancato di rispetto. E' il dovere che si addossa, credo inevitabilmente, chiunque si stia cimentando in una saga composta di più volumi in cui è previsto un inizio e un finale: dall'uscita del primo volume in poi lo scrittore stabilisce un patto con i suoi lettori che non può spezzare senza conseguenze.

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    1. Il rispetto di cui parli è presente anche quando hai un blog da aggiornare con costanza. Io pubblico ogni lunedì e giovedì e cerco di rispettare questa scadenza, anche se so che nessuno verrà a rimproverarmi se dovessi saltare un turno. Lo faccio, perché ci sono persone che mi leggono.
      Certo potrebbe capitare di saltare un aggiornamento in caso di emergenza (mi è successo giovedì, infatti il post è slittato a venerdì) ma si tratta di casi più unici che rari. Tuttavia, questo dovere non mi pesa affatto. rientra nella sfera della scelta. Sono comunque io che ho deciso di aprire il blog, e sei tu che hai deciso di fare la blog-novel. :)

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    2. La differenza di cui parlo io è esattamente questa, Chiara. Se tu smettessi oggi stesso di scrivere post non lasceresti niente di incompiuto. A meno che non decidessi anche di cancellare il blog i tuoi articoli rimarrebbero a disposizione di chiunque vi sia interessato senza perdere né di valore né di utilità. Alcuni post forse col tempo potrebbero diventare superati, ma non è detto neanche questo.

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    3. Sì certo, capisco bene cosa intendi. Con il romanzo vivo qualcosa di simile, perché ne ho parlato tantissimo sul blog, anche se non ho mai pubblicato nulla, e se non arrivassi alla fine farei la figura di una millantatrice, sarebbe una mancanza di rispetto nei confronti dei lettori che hanno seguito la stesura tramite il blog..

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  5. Dici: "Qualche giorno dopo, il diligente destinatario dei miei sproloqui epistolari ha redatto il post Il romanzo che scriverei, nel quale evidenziava che per lui scrivere è un dovere, in quanto gli consente di rendere onore a un talento naturale che diversamente andrebbe sprecato." - ma non è quello che ho scritto nel post che citi. Nel post che citi ho scritto che un buon romanzo è, solitamente, il risultato di un lavoro realizzato con un generale equilibrio tra tre diverse convinzioni: scrivere per la convinzione di avere un talento (dovere verso se stessi); scrivere per il piacere di raccontare (quello che mi sembra tu definisca il "volere"); scrivere per realizzare se stessi o un proprio sogno (egocentrismo). Ci può essere la predominanza di un fattore sugli altri, ma tutti noi, tutti gli scrittori potrei dire, scrivono per tutti e tre questi motivi: riteniamo di avere un talento; riteniamo di avere una storia che ci fa piacere raccontare; riteniamo che la nostra realizzazione personale possa passare attraverso la scrittura (nello specifico: di un romanzo).

    Inoltre, la distinzione che mi sembra tu faccia fra il “dovere” e il “volere” è la stessa che distingue la nostra generazione da quella dei nostri nonni. Il loro mondo – per molti motivi migliore del nostro e per altri peggiore – basava molto del comportamento di un uomo (ma anche della donna) sul dovere (fare ciò che è giusto, al di là dei propri desideri), sull’onore (rispettare l’impegno fino in fondo), sul rispetto (del dovere e della “missione” altrui). La nostra generazione, invece, nata in un batufolo di cotone, è stata da sempre convinta di poter fare un po’ quello che gli pare. Il dovere è solo una parola che può essere sostituita dal volere… La nostra generazione pensa di avere diritto di scegliere, di avere il controllo sul proprio destino, di poter concentrarsi sul proprio volere a discapito del dovere. Non è così. Anzi, questo è proprio il motivo per cui la nostra generazione è una generazione di fanciulli, piuttosto che di persone adulte. Un “fanciullo” si concentra sui propri desideri; un “adulto” si concentra su ciò che è necessario fare (per il bene proprio, per il bene dei propri familiari, della società, ecc.).

    Io “voglio” scrivere, non è una formula migliore di: io “devo” scrivere. Semmai peggiore, per quanto mi riguarda. Perché se la convinzione di “dover” scrivere porti con sé una certa dose di egocentrismo (dipende, però, dal perché lo si ritiene un dovere), la “voglia” di fare, o di essere, scrittori mette al mondo tutta la marea di aspiranti scrittori impreparati e altrettanto egocentrici che proprio con la nostra generazione si è riversata sul mondo editoriale a scapito di chi, magari, il talento ce l’ha davvero. L’idea di poter essere o fare qualunque cosa è ciò che sta alla base del: IO voglio. Da piccolo mi dicevano: “L’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del Re”.

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  6. Lo so che questa non è l’interpretazione che dai tu, ma allo stesso tempo lo è perché dire: “Ho creato dentro di me una sorta di meccanismo stimolo-risposta tale per cui, se qualcuno mi dice “devi fare questo”, il mio cervello si orienta automaticamente nella direzione opposta. Non sopporto ricevere degli ordini, a meno che non siano legati al mio lavoro.” – è esattamente un modo fanciullesco, o quantomeno ingenuo, di vedere la realtà. Naturalmente non sono gli altri che “devono” dirti cosa fare, ambito lavorativo escluso, nessuno può permettersi di dirti una cosa del genere. Sei tu stessa, nei tuoi confronti, che devi valutare la possibilità di prendere un impegno preciso con te stessa (dovere) e portarlo avanti con convinzione (onore). Il mio “dovere” è inteso in questo senso.

    Dici anche: “[…] spesso la sensazione di essere obbligati a fare qualcosa si accompagna a una sofferenza di fondo, alla consapevolezza del fatto che da lì non si può sfuggire.” – è proprio perché siamo nati privilegiati che il “dover” far qualcosa ci fa soffrire. Lo riteniamo un’ingiustizia, un limite, una privazione. Eppure, almeno in un certo senso, è la normalità. Per molte generazioni l’uomo ha fatto quello che doveva fare per sopravvivere e in questo non c’è nulla di male. Bisognerebbe valutare la possibilità che sia la nostra nuova realtà (di privilegiati) a essere invece anomala. Realtà su cui non abbiamo alcun controllo e che potrebbe cambiare da un momento all’altro, anche repentinamente.

    Intendiamoci, ho capito benissimo quello che vuoi dire, e lo apprezzo. Vedere il mondo non come una gabbia fatta di “doveri”, ma come un luogo pieno di opportunità in cui ci si “vuole” gettare con entusiasmo, è certamente un modo migliore, più bello, di vivere. Ma… perché c’è sempre un ma. Ma, dicevo, è una brutale menzogna. Perché brutale? Perché quando il bel sogno fatto di “volere” e di “opportunità” infiocchettate termina, non si è più abituati a fare ciò che è necessario fare. E la necessità comporta sempre il “dovere”. Ci sono parti del mondo, neanche troppo lontane da noi, in cui è ancora così.

    Ho dovuto dividere in due il commento perché mi sono dilungato un po’ troppo e non mi permetteva di inserirlo in un’unica volta…

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    1. Innanzi tutto ti chiedo scusa se non ho citato alla lettera il tuo post, ma mi sono basata su ciò che ho inteso dalle tue parole. Però anche tu hai frainteso me, e questo punto va chiarito.

      Per prima cosa, io non ho mai posto il discorso in termini di "meglio" o "peggio": non stiamo facendo una gara a chi è più bravo, a chi scrive di più o meglio. Non dico che io ho ragione e tu hai torto. Sono soltanto due diversi modi di relazionarsi con la stessa situazione.

      In secondo luogo, non pensare che la mia vita sia il festival del fancazzismo: tu mi conosci e sai quanti sbattimenti mi faccio ogni giorno, per lavorare, per scrivere, per gestire il blog, la casa e tutto il resto. Non sono mai stata una persona pigra, né capricciosa. E fin da piccola mi sono sempre occupata di un sacco di cose. Mi sono impegnata nello studio, sono andata via di casa a 18 anni, mi spaccavo il cervello sui libri mentre i miei coetanei si ubriacavano e andavano in discoteca. Quindi il mio dovere l'ho fatto sempre, con serenità. E lo faccio tutt'ora, perché non sono una persona viziata o capricciosa.

      Tuttavia, arrivata a 33 anni mi sono chiesta: quante delle cose che ho nella mia vita sono state volute? Quante invece dipendono da un desiderio di soddisfare le aspettative altrui?

      Non voglio entrare nel merito delle specifiche situazioni (magari lo farò in privato) ma penso di aver rinunciato a troppe ambizioni per costruirmi una stabilità. Ho soffocato il mio modo di essere, ho soffocato la mia natura da scrittrice e da artista per perdermi in un mare di numeri, di formule, di grafici. E quando sono arrivata al punto di vivere la vita di un'altra persona ho deciso di alzare la testa, e riprendere possesso della mia esistenza facendo ciò che SO fare e che AMO fare, ovvero SCRIVERE.

      Non si può prendere un pesce e pretendere che si arrampichi sugli alberi, nemmeno se gli offri un kit serio e professionale. è contro la sua natura e passerà la vita a sentirsi un imbecille.
      Ecco: per tutta la vita, io ho fatto questo. Ho vissuto accettando una realtà che non mi apparteneva. E ora è giunto il momento di alzare la testa, riprendere possesso di ciò che sono, e portare avanti i miei obiettivi, perché la scrittura è tutto ciò che posso dare agli altri.

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    2. Anche io ho dovuto spezzare il post.

      Penso che tu abbia frainteso anche il valore che io do alla volontà. Non si tratta del capriccio di una bambina che si sveglia la mattina e decide che può diventare qualunque cosa. Io ho scritto i miei primi racconti ai tempi delle elementari. è ciò a cui ho sempre dedicato tutta me stessa. Se adesso dicessi "voglio diventare Miss Italia" ti potrei capire.

      La volontà di cui parlo non ha niente a che vedere con l'arroganza di chi pensa che sia tutto dovuto, ma con la decisione concreta di porsi un obiettivo e darsi da fare per raggiungerlo. Questo non significa che non abbia delle regole o che non provi fatica. Si tratta però di una fatica sana, legata alla consapevolezza di fare qualcosa di importante per me stessa.

      Per questo mi sono sentita un po' offesa, quando hai parlato di "gente che vuole scrivere e toglie spazio a chi il talento lo ha davvero". So che tu ti senti più bravo, rispetto agli altri aspiranti scrittori ma, credimi, io non sono certo l'ultima degli stronzi. Devo imparare molto, ma ho tutti i presupposti per fare un bel lavoro. Magari non vincerò il nobel per la letteratura, ma di una cosa potrai essere certo: il mio romanzo sarà curato nei minimi dettagli, non avrà refusi, errori di grammatica o svarioni che fanno pensare a una mancanza di cura e di amore. Perché la mia volontà mi porta a dire che IO VOGLIO DIVENTARE BRAVA, e questo non avverrà di certo se rimango seduta sul divano a guardare Maria De Filippi.

      Anche a me dicevano che l'erba voglio non nasce nemmeno nel giardino del re, e ritengo questa frase PERICOLOSISSIMA. Sai perché? Perché ha dato vita a una generazione di rammolliti. Siamo cresciuti nella convinzione tale per cui avere un desiderio e sbattersi per ottenere ciò che si desidera è sbagliato. Ma che male c'è? Un individuo non ha forse diritto di costruire il futuro che ritiene migliore per sé stesso? Di vita ce n'è una sola, e non possiamo sprecarla nel tentativo di assecondare la volontà di un sistema marcio e malato.

      Quindi dal mio punto di vista "io voglio" non significa puntare i piedi finché non cade la manna dal cielo, ma rimboccarmi le maniche e passare interi weekend chiusa in casa, se necessario, per concludere il mio romanzo. Ma, soprattutto, farlo con gioia.

      Forse la differenza è solo terminologica, perché stiamo facendo la stessa identica cosa, seppur con punti di partenza diversi. :D

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    3. Per concludere, io scrivo perché so di avere un potenziale e darmi da fare per realizzarlo è un regalo che faccio a me stessa. Anche io come te penso che il mio talento rischierebbe di essere sprecato, se rinunciassi. Ma l'impulso interiore che mi spinge al pc è frutto di una scelta.

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    4. Tesoro, la poni sempre su un piano un po' troppo personale. Allontaniamo la questione da soggetti specifici (io, tu, ecc.) e prendiamola semplicemente come una valutazione anche soggettiva di un certo punto di vista: in questo caso sul significato di dovere e volere e della loro evoluzione nella società. Dire: Io “devo” scrivere e io “voglio” scrivere, hanno entrambe connotazioni sbagliate. Però…

      … io vengo da un mondo in cui il “dovere” ha un valore. Tu vieni da una situazione in cui proprio quel “dovere” ha tarpato le tue ali. Conosco la tua storia. Dovere e volere possono avere significati diversi a seconda del contesto, e questo è senz’altro vero. Ma allo stesso tempo la nostra generazione è una generazione di rammolliti non perché gli è stato detto che il “volere” non se lo può permettere neanche un Re, ma perché c’è stato permesso di ipotizzare che basta “volere” una cosa per ottenerla. Genitori troppo indulgenti, secondo me. Invece, combattere per ottenere qualcosa (un’altra forma di dovere) è ciò che stai facendo tu oggi. Ed è la cosa giusta. Tu non hai bisogno di “voler essere una scrittrice”; tu, secondo me, hai bisogno di “doverlo essere”. Hai talento, ritieni. Allora è giusto combattere. E combattere è una necessità e una necessità tira sempre in ballo il dovere.

      Lo so, diciamo la stessa cosa, ma non credo che sia una male interpretazione di termini. Credo piuttosto che partiamo da posizioni molto lontane per poi giungere, inaspettatamente, allo stesso risultato. Capisco benissimo cosa intendi quando preferisci sostituire il termine “dovere” con “volere” e dal tuo punto di vista non è sbagliato. Però, dal mio punto di vista, è altrettanto giusto sostituire quel “volere”, che mi suona - hai ragione - infantile, con il “dovere”. Scrivere è anche una responsabilità: verso se stessi, verso gli altri, ecc.

      Per la cronaca, visto che lo ripeti spesso, almeno nelle mail, non penso di essere più bravo di te, o di altri. In effetti non ho mai fatto, né esternato, né pensato, valutazioni di questo tipo. Il confronto è sempre, nel mio caso, quello più difficile possibile: con me stesso.

      P.S. anche il “dovere” è una scelta. Io scelgo di prendermi una responsabilità e di portarla avanti fino in fondo. Io scelgo di combattere per ribadire la mia indipendenza, per esternare me stessa, per il diritto di essere ciò che “voglio” essere. Se ci pensi: dovere e volere sono il cavaliere e la damigella della nostra personalità… ;)

      Meglio di così non saprei dirlo: “Devi” combattere per essere te stessa, per fare ciò che “vuoi”.

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    5. Ecco, hai scritto "devi", mi sto già sentendo male! :-D
      Ahahahah, scherzo!

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  7. Non scrivo certo per divertimento, ci faccio una fatica nera, dice Fenoglio. Lo dico anch'io.

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  8. Credo che una parola che rientra in quel che sento verso la scrittura sia responsabilità. Lo scrivevo anche nel blog di Salvatore. Ho la responsabilità delle mie storie. Me ne faccio carico e le porto fino in fondo. Questo non nega il piacere, ma aggiunge qualcosa di più. Mi è sempre congeniale la metafora sportiva. Adesso corro se mi va. Se c'è bel tempo, se ho tempo e mi fermo quando sono stanca. Quando facevo agonismo avevo delle responsabilità nei confronti della mia squadra (per quanto strano sembri, nell'atletica ci sono un sacco di competizioni a squadre in cui il valore della tua singola performance si somma a quello, magari in altre discipline, dei compagni), dell'allenatore, etc. Io ho sempre amato correre, ma la volta che ho partecipato con la febbre alla qualificazione per le nazionali a squadre di corsa campestre l'ho fatto per responsabilità e ne ricordo ancora adesso la sofferenza. Questo, però, non ha negato la soddisfazione, poi, di esserci, alle nazionali.
    Provo lo stesso per la scrittura. Mi piace un sacco, mi ci diverto un sacco, ma arrivare in fondo a una storia e cercare per lei la miglior collocazione possibile è anche una responsabilità che mi sono assunta.

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    1. Bravissima! Hai centrato il punto: la responsabilità, che Salvo associa al dovere, e che io associo alla volontà, perché mi pone nelle condizioni di agire liberamente, di essere padrona dei miei gesti e delle mie azioni. Al contrario, il dovere è per me concepito solo come obbligo. Non per altro, nel buddhismo si usa il termine "responsabile" e "consapevole" per indicare una persona che agisce in modo saggio ma, al contempo, sereno. :)

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  9. Per come la vedo io, in questo ambito l'unico dovere che sento è quello verso me stessa, potrei chiamarlo morale, di portare avanti e possibilmente a termine quello che ho iniziato. Di dovere si parla solo se lo facciamo per lavoro, ma non mi pare il caso per nessuno di noi (purtroppo).

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    1. La responsabilità e sempre frutto di una scelta, secondo me. Il dovere invece è puro obbligo.

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  10. Mi piace scrivere e non l'ho mai vissuto come un dovere, o forse sì ma in un tempo talmente lontano che mi sembra ridicolo ricordarlo. Il dovere ce l'ho nei confronti della storia, e poi del lettore. Voglio dire che cerco sempre di fare di tutto per scrivere al meglio delle mie possibilità, ma non penso troppo al lettore, finirei per piegarmi a piccole paure. Se invece penso solo alla storia, allora posso anche essere sguaiato e non preoccuparmi affatto di quello che gli altri penseranno.

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    1. La consapevolezza di fare del mio meglio mi riscalda il cuore, mi fa sentire bene. Non c'è nulla che mi dia più fastidio di un lavoro trascurato ...

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  11. Sono un po' perplessa riguardo al "volere" completamente scevro dal "dovere". Sui doveri si fonda ogni tipo di disciplina, e su questo si fonda una vera struttura, un individuo degno di nota. Personalmente sento i miei doveri come aspetti perfettamente complementari al mio volere. Sento che il mio volere deriva in qualche modo dai doveri adempiuti ogni giorno.

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    1. È un punto di vista soggettivo che rispetto ma non condivido in parte. Io lego la volontà più alla responsabilità che al dovere vero e proprio. La prima è una scelta, il secondo un vincolo dall'esterno ...

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  12. La conversazione che hai stimolato con il tuo post, Chiara, è interessante. Provo a dire la mia: scrivere per me è un piacere, sicuramente; mandare avanti il blog è sempre un piacere, ma anche un dovere nei confronti di chi ha cominciato a seguirmi o di chi mi invia i racconti e le poesie. Ho iniziato a scrivere, però, per rispondere a un dovere verso me stessa: quello di esprimere la mia spinta interiore a farlo.

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    1. Anche io ho iniziato a scrivere per realizzare la mia libertà espressiva, però non l'ho mai considerato un dovere, quanto piuttosto la libera scelta di assecondare la mia natura creativa, in un sistema che vorrebbe vedermi marciare a testa bassa. :)

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  13. Penso che, se sprecassi i miei talenti, nessuno li rimpiangerebbe, perchè al mondo siamo così tanti, e ci sono così tante persone talentuose, che nessuno si accorgerebbe delle perdite.
    Per me è un dovere scrivere? Sì, diciamo di sì, ma una forma buona, non impositiva di dovere. "Devo" scrivere così come "devo" fare esercizio fisico e mangiare poco cibo spazzatura. Spesso sono nemica di me stessa e, di mia volontà, faccio cose di cui mi pentirò. A sgridarmi è una specie di genitore interiore, o di me stessa del futuro, che interviene a correggermi prima che io mi faccia guidare dalla pigrizia, dall'insicurezza o dal disfattismo, e faccia l'ennesima ca**ata :)

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    1. Un dovere non impositivo, ho capito cosa intendi. La sensazione che sia importante fare certe cose, perché in caso contrario il "costo" sarebbe piuttosto elevato è presente anche in me, però certi comportamenti sono stati progressivamente naturalizzati. Prendiamo ad esempio il cibo: io non sono mai stata una patita dei "peccati di gola", per me mangiare frutta e verdura cinque volte al giorno (pranzo e cena entrambe, più un frutto al pomeriggio) è diventata una necessità fisica, specialmente nella quotidianità. Al weekend, se vado al ristorante, posso anche non farlo, non mi cambia. Però la routine è questa, e per niente faticosa.
      Di esercizio fisico ne ho fatto poco, negli ultimi anni, soprattutto perché mi mancava il tempo. Ora, che voglio smettere di fumare, ne sto facendo di più. E spero che anche questo diventi un'abitudine consolidata in me. :)

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  14. Quando scrivo ogni mattina e "ho preso il ritmo" scrivo per piacere, anche se alzarmi presto non è facile lo faccio volentieri. Rinunciare a fare altro è la parte più bella, scrivere può essere una scusa per essere pigri :)
    Invece quando non mi sento ispirata o nei periodi in cui devo riprendere a scrivere dopo una sosta, scrivere è un dovere che mi impongo per poter tornare a scrivere con piacere.

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    1. Come ti capisco! Anche io a volte ho bisogno del "la", di un piccolo impulso che mi giri la chiavetta nella schiena. Ma, una volta superato il confine dell'inerzia, procedere a passo spedito è la norma. :)

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  15. Oggi ti ho copiato la "Call" finale :)
    Spero che tu non te la prenda...

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  16. Hai ragione a dire che i termini che usiamo improntano la nostra realtà. In questo senso il termine "dovere" può comunicare negatività, dove termini migliori producono positività. Il problema è che esistono moltissimi casi ibridi, in cui i due concetti si intrecciano. Non posso dire che "devo" scrivere, in generale, perché posso smettere quando voglio, e se lo faccio è solo perché mi piace; quando però vengo assalita dai dubbi o inizio a perdere costanza, quello che mi dico è che "devo" scrivere, o gli ostacoli di cui sopra mi impediranno di accedere al "piacere" dello scrivere. Sarebbe semplice, sennò! Credo che questo tipo di problematiche emergano negli anni, non perché si perde passione per la scrittura, ma perché ci si rende conto che un impegno intensivo e una grande passione non sono garanzia di niente. Per questo qualcuno ha detto che "lo scrittore professionista è il dilettante che non molla". Fai bene, però, a sottolineare come il concetto di dovere possa inquinare il piacere in modo controproducente. Ultimamente su questa cosa rifletto molto, perché ho un retaggio di "la vita è sacrificio" che mi zavorra, oltre ad aiutarmi.

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  17. Le risposte a questo articolo mi hanno fatto riflettere sul concetto di responsabilità, che è un po' diverso da quello di "dovere". Credo che uno dei miei prossimi post parlerà di questo. Ma non faccio spoiler! :-D

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  18. Io la vedo come te. Scrivere non è un dovere, è parte di me. Anche se a volte scrivere è faticoso o resto fermo per diverso tempo, torno sempre a scrivere, non posso farne a meno. Quindi questa è una volontà e una passione e tu scegli solo se assecondarla oppure no, io scelgo sempre con piacere e scrivere mi fa stare bene.
    Il dovere invece si divide appunto fra dovere morale e imposizioni. Ho finito di recente la lettura de "La critica della ragion pratica" e ho appreso che il dovere morale non è altro che la scelta di fare la cosa giusta e fare del bene, nonostante le sofferenze che questo può comportare, fino ad essere noi stessi. Invece, dal mio punto di vista, il dovere vero è proprio sono le imposizioni, quindi coercizioni che non limitano solo la nostra volontà ma opprimono proprio il nostro essere.

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    1. Sono d'accordo con te, infatti credo esista una bella differenza fra dovere e responsabilità: il primo è un'imposizione, la seconda una scelta. è quella "dolce fatica" che non snerva, ma si percepisce come qualcosa di benefico e fortemente desiderato

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