Personaggi: i sette archetipi







Quando mi confronto con altri aspiranti scrittori relativamente alla definizione dei personaggi, spesso noto una confusione di fondo fra due concetti fondamentali. Se il primo è da rifuggire come la peste, il secondo invece offre un aiuto importante ed è talmente radicato nella nostra psiche da essere utilizzato quasi automaticamente.
Lo stereotipo porta con sè una visione semplificata e largamente condivisa della realtà.  È lì, pronto, a portata di mano. Dunque rappresenta un rischio oggettivo, per qualunque scrittore. La secchiona con gli occhiali, il belloccio a cui le donne si appiccicano addosso come mosche, il poliziotto divorziato e dal passato misterioso...

Il segreto per aggirarlo è personalizzare il più possibile. Io mi sono impegnata molto nell’arricchire ciascun personaggio con dettagli che spiazzano. Talvolta si rischia di cadere in contraddizione (perché un rocker tatuato soffre di claustrofobia ed ha paura ad andare in ascensore?) ma il segreto è motivare sempre: ogni comportamento ha una causa, che risiede nel passato del personaggio stesso e che deve essere, per il lettore, riconoscibile e chiara. Se vogliamo, siamo anche liberi di far piovere rane dal cielo come in Magnolia, film del 2000, con Tom Cruise. Però, dobbiamo dire perché!
Occorre molto tempo e molta pazienza. Occorre saper prestare attenzione ad ogni minimo dettaglio che potrebbe risultare incoerente. Non ci servono due occhi: ce ne servono sei. Ma, con il tempo e l’esperienza, sia i cliché sia le sbadataggini saltano subito all’occhio.

Diverso, invece, è il concetto archetipo, così come teorizzato dagli studi prima di Campbell e successivamente di Voegler. Esso non indica un ruolo rigido, bensì una funzione narrativa fortemente radicata nell’inconscio collettivo. È una figura universalmente riconosciuta che non necessariamente si lega ad un personaggio, ma può essere connessa anche ad un oggetto o un concetto. È familiare per il lettore ma, nello stesso tempo, in grado di garantire allo scrittore un ampio margine di libertà, a differenza del clichè, che ingabbia il personaggio in una serie di luoghi comuni.
Gli archetipi sono sette e con essi si può giocare mettendo in campo tutta la propria creatività.

L’Eroe  è colui che muove la storia e compie il viaggio. Spesso è riluttante ed ha difficoltà a lasciarsi coinvolgere nella nuova avventura. Talvolta è addirittura obbligato a mettersi in gioco, dal suo mentore o da altri archetipi. Ha in genere un punto debole su cui può essere colpito, e deve confrontarsi con una serie di prove (che possono essere fisiche o psicologiche), prima di raggiungere la trasformazione.
Questo concetto si è notevolmente evoluto, nel corso del tempo: nei romanzi e nei film post-moderni, egli non è più senza macchia e senza paura come avveniva in altri contesti. Anche Superman ha fatto il suo tempo. La storia della letteratura e del cinema presenta numerosi eroi falliti  e mediocri (La coscienza di Zeno), apparentemente vuoti e superficiali (La grande bellezza) o che vivono al di fuori della legalità (il Padrino).
Le imperfezioni rendono il personaggio più attraente e, soprattutto, più vicino al lettore, che avrebbe difficoltà ad identificarsi con un robot invincibile.
Nella stragrande maggioranza dei casi, l’eroe è anche il protagonista della storia. Ma ciò non è scontato. Me ne rendo conto analizzando il romanzo che sto scrivendo. È corale, e ruota intorno ad un gruppo di personaggi. Ce ne sono tre che hanno decisamente più spazio degli altri e la loro trasformazione è più evidente. Tuttavia, ciascuno è a suo modo un eroe, lotta per un obiettivo, incontra numerosi ostacoli e cresce nel corso della storia.
Non è affatto semplice scrivere una storia così articolata, però penso che il lettore possa avere maggiore possibilità di identificarsi. Inoltre, e non è un dettaglio trascurabile, mi diverto tantissimo!

Il mentore per eccellenza è Obi Wan Kenobi: rappresenta la guida che aiuta, allena o istruisce l’eroe. È colui che lo conduce lungo la strada della trasformazione, spingendolo ad agire. Talvolta, muore o scompare prima della prova decisiva, durante la quale il protagonista deve dimostrare di sapersela cavare da solo. Non sempre è identificato con un personaggio, ma può essere anche un concetto: la fede religiosa, la coscienza interiore ecc.
Per quel che riguarda la mia scrittura, mi è sempre piaciuto creare mentori anticonvenzionali, che spesso si muovono al di fuori di ciò che il senso comune accetta o ritiene giusto: un musicista barbuto che insegna in una scuola solo per portare a casa la pagnotta e fuma le canne con gli studenti; una ragazza vicina alle filosofie orientali, che ha stracciato (metaforicamente) la laurea in psicologia per aiutare le persone usando altri mezzi, e così via.
In generale, essendoci nella mia storia molti “eroi”, il ruolo dei personaggi è variabile: ciascuno compie il proprio personale viaggio e porta avanti la propria trasformazione, ma è a sua volta mentore per gli altri personaggi.
Ne approfitto, dunque, per evidenziare che gli archetipi sono estremamente flessibili: ogni personaggio può incarnare ruoli diversi, nel corso della storia, contemporaneamente, oppure in sequenza.

Il Guardiano della soglia è il Caronte della situazione, colui che funge da anello di congiunzione fra il mondo ordinario e il mondo straordinario. Può rappresentare un ostacolo per l’eroe, che deve superarlo per per poter iniziare la nuova avventura. Talvolta è associato ad un vizio, ad una nevrosi, una paura che blocca l’eroe nella propria riluttanza. È percepito come un nemico, ma in un certo senso dona energia all’eroe, che lo utilizza come un’arma.
Talvolta, il suo ruolo si fonde con quella del mentore. Basti pensare alla medium interpretata da Whoopi Goldberg in Ghost. Rappresenta l’unico legame esistente fra il mondo dei vivi e quello dei morti, dunque è un guardiano a tutti gli effetti. Però è anche guida e consigliera: diventa infatti l’unica alleata di Patrick Swayze nel corso del suo viaggio.

Il Messaggero comunica all’eroe l’inizio dell’avventura. A volte è un personaggio. Altre, è l’incidente scatenante (ad esempio il primo incontro fra i protagonisti), una telefonata, o un’e-mail. Rappresenta la chiamata, l’esortazione ad agire.

Possiamo trovare un Mutaforme nel nemico che rivela il proprio lato umano e diventa alleato, nel  ragazzo che all’inizio alla protagonista proprio non piace, e di cui poi si innamora. Oppure, nell’adolescente bruttina che sceglie di iniziare a vestirsi e a truccarsi da vamp, nell’irreprensibile figlio di papà coinvolto in un giro di spaccio, nel padre di famiglia che balla sul cubo con tacchi a spillo e parrucca bionda.
Esistono moltissimi esempi legati a questo archetipo. È una figura che genera dubbi e alimenta la suspense, una sorta di catalizzatore che porta pepe alla narrazione, arricchendola di colpi di scena.

Ombra. Spesso si tratta dell’antagonista ma, nei romanzi post-moderni, tale figura tende sempre più spesso a staccarsi da un personaggio reale e ad assumere una funzione psicologica, riflettendo traumi e paure mai superati che mettono l’eroe in pericolo. L’ombra può essere distrutta, annullata, oppure semplicemente accettata e compresa come parte integrante del proprio sé. In ogni caso, l’incontro/scontro fra l’eroe e la sua ombra costituisce uno dei principali motori della storia. Pertanto, ritengo assolutamente fondamentale definirla bene, fin dalla progettazione.

Imbroglione. È la spalla comica che crea contrattempi e stimola cambiamenti. È come il matto dei tarocchi: colui che spiazza, confonde, ma può anche offrire al lettore un momento di allegria e distensione prima del climax narrativo. È una macchia di colore sulla tela bianca: disarmante, ed immediatamente visibile.

E voi, in che modo cercate di fuggire dallo stereotipo umanizzando i personaggi? Scegliete volutamente gli archetipi presenti nelle vostre storie, oppure si manifestano in modo naturale? Quale di essi prediligete?

Commenti

  1. Direi che gli archetipi si presentano da soli, e io non faccio nulla per tenerli lontani, perché li sento molto radicati anche dentro di me, corde sensibili capaci di trasmettere emozioni. Come dici tu, vanno personalizzati al meglio per non ricordare al lettore altri dieci personaggi già conosciuti nei libri o al cinema. La sensazione del "questo lo conosco" è il bacio della morte per l'autore.

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    1. L'idea di risultare banale è un mio grandissimo cruccio, una paura che emerge soprattutto quando qualcuno mi pone domande sul mio romanzo ... dal momento che è ancora in fieri, mi rendo conto di quanto il riassunto impoverisca e mi spavento un po'... ma vado avanti, e staremo a vedere :)

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  2. Anche gli stereotipi, in realtà, possono essere usati. Se abbiamo dei personaggi secondari che appaiono poche volte nella trama, ma abbiamo bisogno che il lettore si ricordi chi siano, meglio usare degli stereotipi (personalizzati). Pensa al Catarella delle storie di Montalbano!

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  3. Mi vergogno come una disperata, ma sai che non ho mai letto (nè visto) Montalbano? :) Comunque io penso che, nella scrittura, tecnicamente sia tutto possibile... l'importante è saper "umanizzare" lo stereotipo per far sì che non diventi una macchietta. Nei gialli di Massimo Cassani, che apprezzo moltissimo, il commissario Micuzzi è sempre affiancato da tre ispettori: uno è belloccio ed elegantissimo, il secondo è un meridionale che, qualunque indagine faccia, riesce sempre ad essere aiutato da qualche parente, mentre il terzo è un ex delinquente picchiatore, bravissimo a scassinare serrature ed infiltrarsi nella malavita... Nonostante ciò, le scelte narrative fatte dall'autore riescono sempre ad umanizzarli, renderli affascinanti e divertenti :)

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  4. Credo che ognuno si crei con il tempo anche degli archetipi personali, una versione tutta nostra di quelli che citi. O almeno è quello che sta succedendo a me. E quindi devo stare attenta a non ripetermi troppo da una storia all'altra. Sicuramente riconoscerli aiuta a umanizzarli e personalizzarli, come è giusto che sia.

    Lo stesso forse può dirsi per gli stereotipi, sono ormai parte dell'immaginario collettivo, non è facile disfarsene. Però come dice Tenar, non è sbagliato usarli, soprattutto se lo si fa in chiave ironica e un po' comica.

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    1. Si, anche a me sta succedendo, soprattutto per quel che riguarda (come evidenziato sopra) il mentore, che è sempre anticonvenzionale... non è un vecchio saggio, bensì, molto spesso, un emarginato sociale che si muove in netto contrasto con il pensiero dominante :)

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