La favola del minestrone - retroscena
Il genio non è conformismo.
(Vladimir Nabokov)
Qualche giorno
fa, sul blog Lettore Creativo è
stato pubblicato una storiella scritta da me: La favola del minestrone.
Spesso mi avete bonariamente rimproverato perché non pubblico mai racconti sul
mio blog, dunque vi invito a leggerla. Spero che sia di vostro gradimento.
Negli ultimi
anni, a parte qualche sporadica eccezione, per esempio un brano di 20 cartelle
editoriali che sto preparando in vista di un concorso, ho rinunciato ai testi
brevi per concentrarmi esclusivamente sul mio romanzo. Siccome le poche righe
che ho messo a disposizione dell’iniziativa di Silvia Algerino, rappresentano un
caso più unico che raro, ho ritenuto che dedicare loro un post potesse essere
un modo per farvi meglio comprendere la mia scrittura e le sue motivazioni.
L’IDEA
Silvia non ha imposto agli autori alcun vincolo
riguardante il contenuto dei racconti da inviare, ma io ho deciso di non
allontanarmi troppo dal tema natalizio. Il target del blog è composto da
adulti, certo. Ma il calendario dell’avvento è pensato per i bambini. Quindi mi
è sembrato corretto parlare dell’infanzia.
Dal momento che ho trentacinque anni e non ho figli, per
scrivere la mia favoletta ho potuto far riferimento soltanto ai miei ricordi
personali. Da piccola frequentavo una scuola cattolica nel centro di Sanremo. I
metodi educativi lì dominanti erano piuttosto rigidi e penso abbiano ricoperto
un ruolo fondamentale nel mio allontanamento dalla Chiesa. Se non mi comportavo
bene, invece che nell’ufficio del preside finivo dal prete a confessarmi.
Oppure dovevo recitare centinaia di preghiere. Il mio amore per pizzi e
fiocchetti era scambiato per vanità e, una volta, punito con l’obbligo di
indossare la tuta per una settimana intera. Inoltre, ancora oggi non riesco a tollerare
le carote bollite, i piselli e il Belpaese: le suore mi tennero un pomeriggio
intero dentro il refettorio; per andarmene da lì fui costretta a mangiare tutto.
Non voglio ora elencare tutte le angherie educative subite da me e dai miei
compagni, magari lo farò nei commenti. Sebbene mi renda conto che negli anni ottanta
funzionava così un po’ ovunque, ammetto di essere un tantino traumatizzata.
Tra tutti gli
episodi accaduti in quegli anni, una in
particolare mi è rimasta sullo stomaco quanto i pasti che venivano serviti in
mensa: la sottile ghettizzazione che accompagnava ogni iniziativa scolastica,
dai giochi alle attività formative. Anche da noi al venerdì, servivano il
minestrone. A differenza di quanto narrato nel mio racconto, però, chi trovava
il piatto con la stampa del cerbiatto non leggeva una favola, bensì alcuni
passi del Vangelo. Io non ero esclusa da
questa performance, anzi: dal momento che a otto anni avevo già divorato tutti
i romanzi per bambini della biblioteca comunale, leggevo molto meglio dei miei
compagni e puntualmente finivo in piedi accanto alla suora. La cosa non mi
piaceva per niente. Ogni volta che mi trovavo davanti la fondina incriminata,
mi veniva voglia di scaraventarla contro il muro. Perché alcuni bulli mi
consideravano una secchiona e mi tormentavano. Io avrei preferito distinguermi
nelle recite perché mi piaceva ballare e suonare, ma ero troppo alta e secca
per fare bella figura sul palco. I ruoli di spicco spettavano sempre alle
bambine bionde e sorridenti con la vocetta da cartone animato. Ora ringrazio le
suore, che nonostante i loro discutibili metodi educativi hanno compreso quale
ruolo assegnarmi nella dicotomia tra letterata e velina. Ma ai tempi avrei desiderato
che mi lasciassero più spazio per esprimere me stessa. Sono sempre stata un mostriciattolo
creativo. E ritengo che non avessero alcun diritto di escludermi dalla mostra
dei disegni solo perché non tenevo correttamente la matita…
IL PUNTO DI VISTA
Trattandosi di un racconto molto breve, non ho potuto
elaborare mirabolanti artifici tecnici. Mi sono limitata a giocare con il punto
di vista. Ho utilizzato del termini semplici, coerenti con l’età di un protagonista
che ancora considera le canne delle “sigarette strane” ed è vittima inerte di
insegnamenti sbagliati. Suo padre gli ha spiegato che “gli uomini in giacca e
cravatta comandano”; le suore che il mondo si suddivide in buoni cattivi. Nonostante
i limiti anagrafici imposti dal suo pensiero, tuttavia, in lui non c’è
ingenuità. Il piccolo ha un’ intelligenza superiore alla media. Sa ragionare
sulla propria condizione. Si rende conto che qualcosa non funziona nel processo
di socializzazione cui è sottoposto ma pensa di essere lui a sbagliare, perché è
ancora troppo piccolo per mettere in discussione gli insegnamenti degli adulti.
Per valorizzare
la capacità introspettiva di un ragazzino perfettamente in grado di dialogare
con se stesso, ho deciso di utilizzare la seconda persona e di inserire alcune
ripetizioni. So che in testi di altro genere esse potrebbero sembrare errori
stilistici, ma a mio avviso rendono il flusso di coscienza più credibile. Il termine “bruciati/e” torna per due volte. La
frase “tu non sei buono” diventa un mantra finalizzato a evidenziare il
lavaggio del cervello nascosto dietro al crudele metodo della lavagna. Le lavate
di capo subite dal piccolo lo portano ad auto-denigrarsi. Le parole che lui
continuamente ascolta riescono alla lunga a condizionare la percezione del suo sé.
Questo accade perché le valutazioni degli insegnanti più conservatori spesso si
staccano dal piano della performance, per trasformarsi in giudizi sulla persona,
con conseguenti danni all’autostima. L’energia generata da critiche non
costruttive alla lunga si incastra nel DNA e diventa una convinzione limitante.
Chi usa il linguaggio per offendere e insultare, quindi, genera mostri.
IL MESSAGGIO
Questo raccontino mi ha fatto comprendere che posso
trasmettere contenuti importanti anche senza prolissità. Il limite di parole stabilito
da Silvia (che io non ho completamente rispettato) mi ha infatti imposto di attribuire
un grande valore al non detto. Il vero significato del brano si trova più
nel sotto testo che non nella rappresentazione narrativa, e qualche lettore se
n’è accorto.
Ogni ambiente crea, sulla base di criteri spesso
arbitrari, una hall of fame in cui è difficilissimo entrare. Tuttavia,
evidenziare che il gioco della minestra è truccato mi è servito solo come
pretesto per evidenziare che il bambino è un piccolo Jolly
incompreso. La sua genialità non emerge
da risultati scolastici eccellenti ma da tanti piccoli dettagli che chi lo
istruisce ignora, perché vittima di preconcetti a loro volta dipendenti dall’educazione
ricevuta. Nessuno apprezza che il suo bisogno di esprimere la propria
individualità muova in lui il desiderio di staccarsi da una fila di grembiulini
tutti uguali, o che sia così creativo da
personalizzare il proprio disegno colorando i volti con l’arancione. Nessuno comprende
che scrivere una canzone è indice di fantasia e inventiva, specialmente a quell’età:
se i contenuti offendono chi comanda, l’estro è punito e ridotto al pari di una
bestemmia. Perché nella società post-moderna, purtroppo, vince chi obbedisce.
Interrogarsi sul significato delle parole non è importante: ripetere “A Zacinto”
come un pappagallo senza capirci un’acca premia molto di più. Ed è così che si
diventa nani.
Il lancio della patata bollente
Al paragrafo sul significato del racconto aggiungerei altre considerazioni, ma non voglio farlo: penso di aver già fornito tutti i parametri necessari per attivare le vostri doti interpretative. Non pongo inoltre alcuna domanda. Scrivete pure
autonomamente le vostre considerazioni, sul racconto in sé o su questa società
che ammazza il genio creativo, e promuove il conformismo come fosse un valore.
Facevo la terza elementare se non sbaglio e quando arrivava il direttore la maestra chiamava le alunne (era una classe solo femminile ancora) più brave alla lavagna per fare degli esercizi. Un giorno arrivò il direttore e la maestra chiamò me è un'altra bambina. Svolgemmo un esercizio di moltiplicazione, io feci tutti i calcoli e arrivai alla fine con il risultato esatto (controllato con la prova del nove, adesso non me la ricordo più ...) fui un po' lenta nello svolgimento e la maestra mi faceva dei gran cenni come per dirmi 'sbrigati'. L'altra bambina svolse un'altra operazione e fece tutto più velocemente di me, ma la prova del nove non tornava (quindi aveva sbagliato!) ma la maestra strabuzzò gli occhi e intervenne con il suo gessetto facendo finta che la prova tornasse. Ecco capii allora che conta molto di più FINGERE di essere bravi piuttosto che esserlo davvero magari con un po' di lentezza in più. Fin da bambini ci tocca competere e spesso non importa osservare le regole...
RispondiEliminaAnche se apparentemente non c'entra molto, hai fatto venire in mente un mio vecchio tema. Erano gli anni della guerra nel golfo e ci avevano chiesto di scrivere una lettera a un bambino iracheno. Io non sapevo nulla di politica ma avevi espresso dei pensieri ben precisi, prendendo un voto bassissimo. Il tema era scritto molto bene. Le suore l'avevano detto anche ai miei genitori. Però le idee ben si armonizzavano con il pensiero cattolico...
EliminaPare impossibile, ma una volta le suore facevano più danni dentro una scuola che alla guida della Fiat Uno bianca, con partenza in seconda e il freno a mano tirato. :/
RispondiEliminaL'unica suora STRAORDINARIA mai incontrata nella mia vita guidava il pullman! :-D
EliminaA me il tuo racconto è piaciuto molto da subito, nonostante trasparisse la tristezza. Per mia fortuna non ho sperimentato la scuola delle suore, ma ho spesso temuto mi spedissero in collegio come castigo. Dai racconti di mio padre che lo aveva fatto vedevo già le rape venirmi incontro e diventare perenne cena. Così mi sono obbligata a diventare la brava bambina a scuola e a casa che tutti volevano. Solo che, nonostante non fossi bionda, intonata e alta alle recite mi facevano fare la presentatrice e mai un'altra parte forse come per te avevano capito i miei limiti e le mie potenzialità, bastava mettermi a leggere e parlare ed ecco fatto, la statuina imbalsamata non era da me.
RispondiEliminaA me piaceva molto leggere davanti a tutti, ma non mi piaceva che lo facessero fare sempre a me. Già ai tempi, da brava bilancina, ero molto sensibile alle ingiustizie. Oltre al fatto che, come ho scritto nell'articolo, i bambini sono buoni e cari ma sanno essere molto invidiosi. E poi te la fanno pagare. :)
EliminaMannaggia, quelle suore, quanto hanno contribuito ad allontanare i bambini dalla Chiesa! Che poi, questo è l'unico caso in cui non si parla di luogo comune: loro SONO veramente così! Non tutte, dai, ma insomma, educare punendo e punendo facendo dire le preghiere... ma per carità!
RispondiElimina(Non è che le sopporti tanto io, le suore!)
Io mi sono allontanata dalla religione ma non dalla fede. E forse in questo modo mi hanno fatto un regalo. Mi sembra infatti che sempre più spesso la spiritualità vera sia lontano dalle istituzioni. E questo non vale solo per la religione cattolica. Spesso il credere è usato come un alibi per fare ciò che si vuole, ma il bene nasce quando un cuore è sincero. :)
EliminaNon credevo che negli anni '80 succedessero cose del genere nelle scuole! Me la sono passata meglio io nei '70... Sai cosa è terribile? Che anche le bambine carine con le voci mielose e i bambini bravini sono dei creativi negati. Sicuramente ci sono persone che soffrono di più e altre che soffrono di meno i tentativi di inquadramento, ma la sofferenza è di tutti. (Bel racconto!) :)
RispondiEliminaSicuramente la creatività è un dono che appartiene a tutti. A qualcuno in misura maggiore, a qualcun altro in misura minore. Stessa cosa dicasi per la tendenza al conformismo: ciascuno di noi deve cercare il compromesso per non essere un emarginato sociale, e se si riesce ad armonizzare il vivere in società con lè proprie tendenze naturale, la personalità è equilibrata. Noi esseri umani però non siamo tutti uguali. Qualcuno riesce a tenere a bada la creatività con più facilità di altri. E c'è anche chi trova grande sicurezza dall'appartenenza a un sistema.
EliminaPrima di tutto, Chiara, ti ringrazio molto per aver aderito alla mia iniziativa e averci regalato questo bel racconto.
RispondiEliminaA mio parere spesso le esperienze negative sono quelle che regalano gli spunti per ottimi racconti e avevo percepito che ci fosse una base autobiografica a dare maggiore forza alle tue parole.
Fortunatamente sono cresciuta in una scuola laica, ma nel mio immaginario mi è derivata un'immagine della scuola "delle suore" perfettamente corrispondente a quella che narri tu, per cui è come se un po' l'avessi vissuta anch'io.
La scuola per decenni non ha saputo correggere ma solo punire. Oggi purtroppo è scivolata eccessivamente dall'altra parte, perdendo il senso della misura. Come tutte le oscillazioni che da un estremo portano all'altro, si spera che prima o poi ci si assesti nel mezzo.
Tesi antitesi e sintesi: speriamo che Hegel abbia visto giusto.
EliminaGrazie a te per avermi dato l'opportunità di partecipare. :)
Il tuo racconto è ottimo. Un bel regalo di Natale.
RispondiEliminaGrazie Hell. :)
EliminaIl tuo racconto è molto bello.
RispondiEliminaAnch'io sono reduce dalla scuola delle suore. Angherie e preferenze non le ricordo, ma metodi educativi rigidi sì. In particolare commentavo con mio marito che io e le due amiche che mi porto dietro da allora abbiamo in comune la sensazione di non fare mai abbastanza, in particolare per il prossimo e per il mondo e un certo senso di colpa quando siamo felici. Lì era tutto un elogiare la sofferenza da offrire a Dio e un rimarcare forse eccessivo per l'età che avevamo di tutto il male che c'è nel mondo. Non mi sento di criticarle del tutto, ci hanno inculcato il senso civico fin nel midollo e la consapevolezza delle disuguaglianze sociali. Del resto mia madre mi ha cresciuto in modo neutro (oggi si direbbe che seguiva le teoria gender!) e la scuola le piaceva proprio perché non faceva distinzioni tra maschietti e femminucce, tutti vestiti uguali a lavorare sodo. Vedendo certi eccessi della scuola di oggi, a volte rivaluto le mie suore...
Anch'io, se devo essere onesta, riconosco anche dei lati positivi negli insegnamenti ricevuti a scuola, specialmente per quel che riguarda gli aspetti didattici. Le due scuole che ho frequentato (elementari e medie: erano due diversi istituti, entrambi gestiti da suore) assumevano docenti molto competenti e io riconosco di aver vissuto quasi di rendita, nei primi anni del liceo, perché avevo già studiato la Divina Commedia, i Promessi Sposi, le equazioni di secondo grado, e avevo frequentato i corsi facoltativi di latino. Però il prezzo da pagare per questa competenza nell'insegnamento è stata un'eccessiva rigidità. Anche io ho integrato in me la convinzione limitante per cui la vita è sofferenza, alla quale si è accompagnata quella di non meritare la felicità e tutti i doni che la vita mi ha offerto. Era quasi come se noi bambini dovessimo sentirci in colpa per il pane che avevamo sulla tavola, per i vestiti che indossavamo (il peccato di vanità era menzionato molto spesso) e, in generale, per la nostra gioia di vivere. Addirittura una volta era stato punito un ragazzino che "rideva troppo". Penso che questo modo di pensare abbia molto condizionato la mia crescita, tant'è che per anni ho basato la mia vita su un meccanismo di premio-punizione che ha sfiorato anche il settore dell'alimentazione: c'è stato un periodo in cui mi "concedevo il lusso" di mangiare solo se ero soddisfatta dei voti presi e mi ero impegnata abbastanza...
EliminaNon ricordo particolari discriminazioni tra bambini e bambine, però le differenze erano rimarcate attraverso una sorta di paura del contatto. All'intervallo non potevamo giocare insieme: la terrazza era divisa da una linea di demarcazione, i maschietti di qua e le femminucce di là. Solo quando pioveva ci concedevano la compresenza per questioni logistiche, visto che avevamo a disposizione solo la palestra. Ricordo, però, che una volta mia mamma andò a protestare perché le avevo raccontato che le suore avevano "punito" un mio compagno di classe facendogli fare l'intervallo con le bambine: "ma che razza di castigo è?", aveva detto. :-D
P.S. Scusami, mi sono un po' dilungata. La riflessione si stava facendo interessante.
EliminaLe mie suore erano meno rigide, evidentemente. C'era molto il concetto di comunità e condivisione e maschietti e femminucce facevano esattamente le stesse cose. A maggio ogni giorno un maschietto e una femminuccia andavano ad accendere una candela alla Madonna, il maschietto di turno aveva un rosario al collo e la femminuccia una spilla bianca, questa era l'unica differenza di genere che io avessi mai visto. A nove anni mi sono trasferita con la mia famiglia e nella scuola del paese ho scoperto con sorpresa che maschietti e femminucce facevano cose diverse e se a me piacevano quelle da maschietti venivo guardata male. Però, sì anche a noi veniva un po' inculcato un certo qual senso di colpa per il pane in tavola, qualcosa che è rimasto sotto forma di sensazione di non fare mai abbastanza e che accomuna me e le amiche che mi porto dietro da allora.
EliminaAnch'io mi sono dilungata, ma appunto, è interessante vedere come queste esperienze abbiano segnato la nostra psicologia.
Questo senso di colpa penso sia la causa di molte situazioni depressive riguardanti persone cresciute in un ambiente chiuso. Le generazioni precedenti erano più brave a gestire il conflitto interiore: semplicemente lo ignoravano, in virtù del rispetto delle regole. Noi invece siamo cresciuti con il "mito" (sacrosanto) del benessere psicologico, quindi non sempre riusciamo a comprendere il sacrificio e la privazione. Vorremmo seguire le nostre esigenze ed avere una vita soddisfacente, ma ci hanno insegnato che "dobbiamo" fare determinate cose, per essere accettati. Chi non riesce a mediare, va fuori di testa. L'ho visto accadere a me, e a tanti miei amici.
EliminaSpiacente, niente racconti, preferisco leggere romanzi.
RispondiEliminaNo, scherzo, ho commentato di là. :)
Vado subito a vedere e ti rispondo. :)
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