L'autore e la "percezione dello schifo incombente" - da dove nasce il rifiuto per alcuni vecchi scritti


Le parole non sono troppo vecchie,

lo sono soltanto gli uomini che usano le stesse parole troppo spesso.
 

Elias Canetti

La settimana scorsa sono stati pubblicati due post, da MariaTeresa Steri e Daniele Imperi, aventi per oggetto il rapporto con i propri testi passati. A livello generale, emergeva una sensazione mista di vergogna e rifiuto. “Allora non sono sola nell’universo”, mi sono detta. Ci sono brani che vorrei destinare ad una bella pira fumosa. Se penso che qualcuno li ha letti (e addirittura apprezzati) mi scaverei una fossa profondissima. Eviterei anche di farmi vedere in giro.

Capita molto spesso e praticamente a chiunque di non ritrovarsi più nelle vecchie storie di un tempo. Si può parlare di tendenza generale? Forse sì. Siamo stati tutti contaminati dal bisogno viscerale di rimettere le mani su vecchi romanzi o racconti rivoltandoli come calzini per far quietare la  “percezione dello schifo incombente” (cit. Aislinn, o meglio la sua amica Marina di Space of Entropy),  oppure di rinunciare ad ogni tentativo di miglioramento ed utilizzarli per pareggiare un tavolino traballante.

Anche io sono caduta nella rete, seppure a fasi alterne. Le mie antiche farneticazioni hanno anche avuto la propria utilità. Mi spiego meglio.

È stato proprio rileggendo i miei scritti del 2007-2008 che ho deciso di riprendere in mano la tastiera. Il mio terzo tentativo di romanzo era una bozza informe scaricata sul foglio senza alcuna progettazione, con personaggi piatti e stereotipati ed ingenuità imbarazzanti. La mia competenza tecnica si limitava a testi brevi. La stesura si riduceva ad una mera improvvisazione. Però ho provato una sorta di rimpianto per la libertà emotiva che animava le mie parole, per lo stile pulito e divertente. La profondità di alcuni concetti espressi in un racconto sulla reincarnazione ed il karma mi ha lasciata spiazzata. Al di là dei contenuti, ormai rimpiazzati da altre idee, sono rimasta sorpresa dalla mia voce e dalla facilità con cui riuscivo ad esprimermi.

Dopo un periodo di stitichezza creativa durato cinque anni, mi ha fatto effetto scoprire che esisteva un periodo, nel mio passato, in cui avevo qualcosa da dire. E lo dicevo, senza paranoia alcuna. Prima mi sono domandata “Ma le ho scritte proprio io queste cose?” e poi “Chissà se sono ancora capace. Perché non provare?” In fondo, cosa avevo da perdere?

Lo stile è cambiato perché sono cambiata io. La giovinezza a volte può essere un bene, se si trasforma in spontaneità. Per molti mesi ho cercato di ricostruire quella freschezza, mentre agonizzavo davanti alla pagina bianca, ma il mio sguardo era disincantato e la fiducia vacillava. Soltanto ora (ed in parte grazie al blog) dopo molti mesi sono riuscita a ritrovare una scioltezza priva di implicazioni auto-giudicanti. Ho smesso di criticarmi ed ho cominciato a divertirmi. Ora so di scrivere meglio rispetto a sette anni fa. Ma forse non era così quando ho deciso di riprendere.

Durante le ferie, per contro, ho rispolverato alcuni brani antecedenti quelli di cui sopra. Probabilmente Sartre, prima di scrivere “La Nausea”, aveva fatto qualcosa di simile. Comprendo che nel tra il 2000 e il 2005 ero una studentessa universitaria ingenua ed inesperta... però che “bimbaminkia”! Nei pezzi più recenti avevo imparato a gestire i punti di vista forse meglio di quanto non sappia fare ora. La trama tutto sommato filava. Ma il resto non sarebbe mai potuto interessare a nessuno, se non a me stessa. Ero completamente incapace di staccarmi dal mio mondo, dalle mie esperienze quotidiane. Probabilmente raccontare le mie routine era un modo per esorcizzarle, ma se uno scrittore non sa trascendere il proprio vissuto può parlare solo di se stesso e diventa noiosissimo.

Perché succede tutto ciò? Perché questo rifiuto per gli scritti passati?

Posso capire il rifiuto se si tratta di una prima stesura: di solito è abbozzata, libera, per natura imprecisa. Idem per gli scritti autobiografici, in quanto la crescita individuale porta spesso un distacco dalle situazioni passate. Un’emozione, una volta espressa, perde energia. Ma spesso lo schifo autoprodotto invade anche opere già revisionate o, addirittura, già pubblicate. Conosco scrittori che ritirerebbero volentieri i propri romanzi dalle librerie, se non ci guadagnassero qualcosa. Altri non amano parlarne con i lettori. Si vergognano.

La spiegazione di tale fenomeno, a mio avviso, è di matrice psicologica. La nostra scrittura affonda le proprie radici nell’inconscio. Spesso è uno strumento con il quale esorcizziamo ciò che non riusciamo a comprendere. Un protagonista particolarmente aggressivo, ad esempio, può essere emblematico della nostra difficoltà ad esprimere la rabbia per certe situazioni mai superate. Una storia d’amore passionale può donarci ciò che, per indole o per sfiga, non riusciamo a portare nella nostra vita. La creazione, prima di conoscere revisioni o aggiustamenti, è energia pura. In seguito si dà un ordine al testo e lo si stabilizza in una forma più universale e leggibile, ma all’inizio serve a liberare ciò che è chiuso dentro di noi e preme per uscire.

Il lavoro di editing, tuttavia, non riuscirà mai a scindere completamente la psiche dello scrittore da ciò che scaturisce sulla pagina. Si tratta di un legame intrinseco e naturale. La nostra scrittura rispecchia ciò che siamo, volenti o nolenti.

Se un’idea ci pungola così in profondità da spingerci a dedicarle un racconto o un romanzo, è perché sta risvegliando qualcosa che abbiamo seppellito e nascosto.  Se non fosse così, l’avremmo ignorata senza pietà. Avete presente una donna che desidera ardentemente un figlio ed intorno a sé vede soltanto donne incinte? Prima, magari, non se ne accorgeva nemmeno. Ecco: anche allo scrittore accade questo. Ogni storia è un richiamo. Abbiamo qualcosa da tirare fuori, da esprimere e da restituire al mondo sotto forma di parole.

Questo concetto, era già stato sfiorato in un mio vecchio post, Una verità interiore che trascende l’autobiografia, del quale voglio riprendere una frase:

Credo che nessuno di noi sia mai completamente separato da ciò che scrive. L’inconscio serpeggia. Si insinua fra una parola e l’altra. Anche il personaggio più distante dal nostro sentire può essere l’emblema di una tendenza, di una paura, di un desiderio. E, quando ce ne rendiamo conto, ci sentiamo spaventati. Cerchiamo scappatoie e stratagemmi. Ad esempio, decidiamo di uccidere il poveraccio. Lo facciamo diventare un comprimario. Creiamo una mirabolante architettura di sottotrame, ci concentriamo sullo stile e non sulle emozioni, abbandoniamo la nostra opera convincendoci di non essere capaci a scrivere.    

Le nostre parole non sono un casuale intreccio di simboli ma appartengono al nostro modo di essere, adeguandosi ai suoi cambiamenti. Continuano a scorrere, come un fiume in piena. L’acqua a volte può essere torbida, altre limpida e pulita, ma sempre mutevole. L’acqua che sta scorrendo adesso, proprio in questo momento, non potrà mai essere la stessa di ieri.

Noi cambiamo: cambia la nostra mente, le cellule si sostituiscono, nuove energie si creano. Parole che un tempo ci stimolavano, ora risultano vuote Prive di significato. Non ci dicono niente. Le abbiamo dimenticate e rimosse. Talvolta, addirittura ripudiate.

È per questo che non ci riconosciamo nei nostri vecchi scritti. Essi fanno appello ad un ricordo o un’emozione che abbiamo trasceso e superato per aprirci a qualcosa di meglio. Senza tale distacco, non potrebbe esserci evoluzione. E senza evoluzione anche la nostra scrittura finirebbe per fermarsi. A me è successo: avevo smesso di scrivere perché avevo smesso di crescere. L’immobilità mi aveva tagliato le corde vocali.

Anche se l’intervento diligente di un editor ha cristallizzato la nostra opera nell’eternità, noi l’abbiamo superata. Siamo già pronti per trovare nuovi spunti, nuove storie, uno stile innovativo, un timbro diverso.

Gli scritti del passato vanno utilizzati per acquisire consapevolezza del cambiamento avvenuto e considerati parte integrante del nostro essere. Rifiutando loro, rendiamo completamente vana una parte del nostro percorso: senza quelle tappe fondamentali, non avremmo mai potuto raggiungere il luogo in cui troviamo adesso. Tutto ciò che abbiamo vissuto va accettato e rispettato, così come tutto ciò che abbiamo scritto, a prescindere dalle sue qualità oggettive. È pur sempre parte di noi: se ce ne distacchiamo, finiamo per auto-mutilarci.

La Chiara adolescente è stata surclassata dalla Chiara adulta, ma sempre di me si tratta. E quelle poesie, scritte a sedici anni durante le vacanze di Pasqua in Piemonte, esprimono la mia essenza di allora, che ha contribuito a strutturare la persona che sono adesso. Sono sempre io, ma nello stesso tempo non sono più io. Cerco di amare e rispettare quelle parole senza vergognarmene.

A me, personalmente, fanno più schifo i brani scritti lo scorso ottobre che non quelli redatti nel 2007 o nel 1997. La ripartenza è stata singhiozzante ed incerta. E nemmeno i primi post del blog mi entusiasmano particolarmente. Però ricordo quelle pagine con affetto ed anche con un pizzico di tenerezza. Senza di loro, forse, non sarei qui a parlarvi.  

E voi che rapporto avete con i vostri scritti passati? Esistono altre spiegazioni a questa forma di rifiuto?

Commenti

  1. Io sono così pieno di me che ho proprio postato senza alcun problema un racconto scritto 5 anni fa :)
    A parte tutto, è vero che sentiamo "superate" le cose fatte in passato.
    Ma posso dire una cosa? Hanno il fascino del passato. Magari dell'immaturità, saranno acerbe, ma mica per forza schifose^^

    Moz-

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  2. Il termine era utilizzato in chiave ironica, poi l'articola spiega bene che tutti gli scritti sono importanti a modo loro .. :)

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  3. De André diceva "ho poche idee e in compenso fisse", frase in cui un po' mi riconosco. Andando indietro mi rendo conto che si sono alcuni nuclei tematici che sono miei da sempre, dai primi, imbarazzanti tentativi. Perché l'imbarazzo c'è a rileggersi, con tutte le proprie ingenuità. Però alla fine è quello che noi eravamo. Vivere male con i nostri scritti del passato non è vivere male con noi stessi?

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    1. Esatto, è proprio questo il concetto di fondo dell'articolo. Amare i propri vecchi scritti significa percepire sé stessi come una totalità di emozioni sogni e progetti in evoluzione. Credo valga per la scrittura come per ogni altro settore della vita. Non sempre ci è andato tutto liscio, ma siamo ancora qui.
      I nuclei tematici mi pungolano finché non sono riuscita a sviscerarli a sufficienza. Affrontarli è un modo per guardare dentro di me, comprendere perché mi interessano tanto e poi buttarmici dentro. Sono felice di questo viaggio. Non è solo dei miei eroi ma è anche il mio :)

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  4. Guardi indietro e ti supisci di quanto fosse immediato e rilassato il tuo modo di scrivere, per quanto carico di difetti. Succede anche a me, e ci penso parecchio. Il fatto è che non puoi mantenere insieme l'ingenuità dei primi tempi e le consapevolezze acquisite successivamente, perché le seconde tendono a imbavagliare la prima. Forse tutto non si può avere e basta; o forse si può sperare di arrivare, dopo il periodo di acquisizione delle consapevolezze, a un approccio di maggiore semplicità che permetta un'espressione spontanea ed efficace insieme. Questo mi sembra un buon obiettivo per il futuro.

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    1. Il metodo che proposi nel primissimo post del blog puntava proprio a trovare questo equilibrio: mettendo insieme competenza e creatività si ottiene un buon risultato. Separare le stesure (creativa la prima e meditata la seconda) per molti è un buon compromesso. Io ci sto ancora lavorando :)

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  5. Con i miei scritti ho un buon rapporto anche dopo parecchi anni, a meno che io non rilegga cose veramente vecchie e impubblicabili. Cose che appartengono solo al mio privato, e come tali rimarranno.

    Devo fare un discorso a parte per la poesia, invece, infatti autopubblicai un paio di raccolte qualche anno fa, tra l'altro illustrate con miei dipinti. Forse dipende dal fatto che io mi consideri una prosatrice e non un poeta o poetessa, ma oggi come oggi non le pubblicherei proprio.

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    1. Forse con il tempo e con l'esperienza il rapporto con i propri scritti cambia, perché inizia a basarsi su criteri più oggettivi. Ad inorridirci, forse, è ciò che si lega ai nostri primi passi nel mondo della scrittura, passi amatoriali, non meditati, ancora tentennanti. Poi si cresce, si affina la tecnica, si migliora la propria autostima come scrittori rafforzando il rapporto con le proprie creazioni.

      Azzardo un paragone metaforico: recentemente mi è capitato di vedere alcune mie fotografie di quando ero adolescente. Ma come diavolo ero vestita? Mi domandavo. Eppure, ai tempi, con miei DR Marteens e i Levi's mi sentivo elegantissima. Ora sono una donna, ho trovato uno stile stabile, non soggetto alle mode giovanile, mi sento a mio agio nei nuovi passi. Non dirò mai, "oddio come mi vestivo nel 2009", perché cinque anni fa ero già "cresciuta". Ma nel 1999 ... oddio!

      Forse per la scrittura può valere lo stesso principio :)

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  6. "A me, personalmente, fanno più schifo i brani scritti lo scorso ottobre che non quelli redatti nel 2007 o nel 1997." Pensa che fra dieci anni ti piaceranno anche quelli che hai scritto lo scorso ottobre. Com'è che dicevano i vecchi? - La distanza rende più cari i ricordi e il tempo li fa più dolci. ;)

    Dopo tutto è più difficile guasi allo specchio che in fotografia, soprattutto se la posa ha già una decina d'anni...

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    1. [...] "guardarsi" - refusus infame

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    2. Dubito che mi piaceranno. Avevo la ruggine sulle dita ed il cuore nel congelatore. Però non si sa mai :)

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  7. Io credo che la cosa importante sia non rinnegare ma ciò che si è scritto. In fondo, ogni testo è parte di noi, di ciò che eravamo e di ciò che siamo diventati.
    Per quanto mi riguarda, ritengo sia positiva l'insoddisfazione che mi coglie quando rileggo un vecchio scritto, è probabilmente segno che nel tempo sono migliorata e so di poter fare di meglio. Ma è solo uno sprone a migliorare ancora. I testi scritti, come i figli, si amano nonostante i loro difetti, secondo me.

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    1. è quanto ho cercato di evidenziare nella seconda parte dell'articolo.
      è normale prendere le distanze dai propri scritti, ma tutto il passato va accettato, errori e figure di emme comprese. Vale, secondo me, per ogni settore della vita.

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