Parolacce, gergo e regionalismi: usare con cautela.




Il linguaggio, prima di significare qualcosa, significa per qualcuno.

(Jaques Lacan)

Quando si decide di scrivere un romanzo, il linguaggio scelto chiede di essere fedele al contesto socio-culturale in esso rappresentato. Come dice bene l’aforisma di apertura, le parole non solo significano qualcosa, ma hanno rilevanza per qualcuno. Quel qualcuno può essere, ad esempio, il nostro protagonista. Oppure la galleria umana che lo circonda, fatta di comprimari e comparse fortemente caratterizzati, che chiedono di potersi esprimere utilizzando la propria voce.


Questa necessità pone, a molti autori post-moderni, un serio problema di equilibrio. Pensiamo ad una storia ambientata in un quartiere disagiato della periferia di una grande metropoli. Se il protagonista è un bulletto di quindici anni che fuma spinelli sulle panchine di un parco spennacchiato non parlerà di certo come un accademico del settecento. Uno schizofrenico dalla personalità borderline rinchiuso in clinica psichiatrica avrà un modo tutto suo per comunicare con le persone. Allo stesso modo uno straniero appena giunto in Italia, un primario del reparto di chirurgia, un impiegato di banca. Occorre quindi un linguaggio identificativo, emblematico, capace di evocare una determinata realtà rendendola viva sulla carta.

Tuttavia, è presente un rischio. Un linguaggio secco e sostanzialmente anti-letterario può connotare meglio una vicenda ma, se male utilizzato, rischia di appesantirla, involgarirla e portare il lettore a travisarne il significato. Non dimentichiamoci che gli scrittori sono considerati (o almeno dovrebbero, in un paese civilizzato) degli intellettuali. Abbiamo sì il compito di intrattenere e divertire, ma anche quello di educare il lettore, facendogli assaporare mondi diversi in cui, pur in mezzo alla nebbia e al fumo, la cultura è presente.

Come riuscire ad essere contemporaneamente realistici e letterari, sinceri e colti? La soluzione, a mio avviso, è quella di centellinare gli elementi che sporcano il linguaggio spargendoli qua e là senza esagerare, come se si trattasse di una spruzzata di pepe sulla carbonara. Ciò non toglie poesia alla vicenda. Non compromette la nostra immagine di autori colti e competenti. Non toglie profondità alle scene più intimiste né energia alle emozioni descritte. Semplicemente arricchisce, senza involgarire.

Prendiamo ad esempio le parolacce. Circa un anno fa, mi è capitato di leggere “Niente lacrime per la signorina Olga”, di Elda Lanza. L’autrice, una delle prime “signorina buonasera” della RAI, è più verso i novanta che verso gli ottanta ed ha ancora voglia di mettersi in gioco. Come si suol dire, chapeau. Tuttavia, in un’intervista si vantava di aver scritto 400 pagine senza nemmeno una parolaccia. Il romanzo era un giallo e tale scelta linguistica ha creato un’atmosfera straniante, irrealistica, anacronistica rispetto alle tendenze narrative odierne e completamente fuori contesto. Dopo tutto, si trattava di un giallo: ad un ispettore di polizia quarantacinquenne che da la caccia ad un killer e, contemporaneamente, perde la moglie incinta in una sparatoria, prima o poi un “vaffan…” può scappare, o sbaglio?

Per contro, “A volte ritorno” di Nieven ha un incipit volgarissimo e blasfemo, al punto che stavo per abbandonarlo dopo una ventina di pagine. L’idea che mostrasse Gesù – tornato sulla terra nel 2012 per redimere il genere umano – parlare come uno scaricatore del porto di Genova mi indispettiva. Ho proseguito la lettura e, tutto sommato, non me ne sono pentita: il messaggio implicito era molto intenso. Alla fine, sono anche riuscita a commuovermi. Ma il turpiloquio ha distolto l’attenzione dal significato profondo veicolato dal romanzo, facendolo passare in secondo piano.

A me ogni tanto capita di utilizzare le parolacce, non solo nei dialoghi, ma anche quando il punto di vista è interno. La vicenda che sto raccontando nel mio romanzo è intrecciata all’attualità e si svolge in ambienti ben delineati. Anche se so che il linguaggio utilizzato non rispecchierà mai al 100% il parlato reale, e a dire il vero nemmeno lo desidero, cerco di fare in modo che gli si avvicini il più possibile, senza far perire altri elementi importanti del mio modo di scrivere. Anche il concetto di letterarietà è ben radicato in me. In molti brani, sento l’esigenza di procedere nella narrazione con eleganza. Dunque alterno la crudezza del reale al romanticismo ed alla poesia. Come nel tao buddhista, l’equilibrio è data dall’armonia fra gli opposti. Questo stile ibrido mi rispecchia molto e i miei lettori-cavia lo apprezzano.

Anche il gergo e i regionalismi possono aumentare la sensazione di realismo, ma non sono comprensibili a tutti. Questo rende il loro utilizzo non solo difficile, ma anche pericolosissimo, perché rischiano di tenere il lettore a distanza.

Per quanto riguarda il gergo, la soluzione potrebbe essere quella di adottare termini dal significato affine, ma maggiormente radicati nel senso comune. Ad esempio, qualche giorno fa mi sono incartata sulla parola roncioso, utilizzata a Milano per definire i frequentatori di alcuni locali notturni sui Navigli. Anche se il punto di vista coincideva con quello del personaggio e l'utilizzo di questo appellativo rispecchiava il suo modo di esprimersi, mi sembrava brutto, troppo connonativo e carico di giudizio. Inoltre, superata la pianura padana, pochi sanno cosa significhi. Alla fine, l’ho sostituito con un più neutrale punkabbestia, che ormai è sul vocabolario, insieme a tamarro. Voglio essere onesta: le espressioni gergali non mi piacciono molto. Temo che portino delle etichette immeritate, e che impoveriscano l’opera nel suo complesso. In generale ne uso pochissime. 

Non mi sono ancora posta il problema dei regionalismi. A volte viene fuori qualche espressione tipica. Nasce in modo spontaneo, come un fungo. Solitamente la lascio lì e non la tocco. So che potrebbe essere velenosa. Mi riserverò, in futuro, di decidere cosa farne.

A voi capita mai di usare parolacce, gerghi o regionalismi? In quale modo riuscite a garantire l’equilibrio fra il realismo e il valore letterario?


Commenti

  1. Inizio dalla parte su cui sono d'accordo con te: i dialettismi. Ormai alcune parole sono di uso comune ed è meglio usare quelle per un racconto standardizzato.
    Qualora invece la geografia sa davvero protagonista oltre che sfondo, ci sta che parole regionali debbano esserci: quelle più ostiche le si traduce con nota a margine (mi è capitato di farlo per un racconto-parodia-poliziottesco ambientato nella mia città, in Puglia).

    Sulle parolacce, io penso che dipenda tutto dal personaggio e la situazione, nonché dal tenore dell'opera.
    Perché se uno vuol replicare/parodiare i linguaggi degli sceneggiati, anche ambientando una storia nel 2014 fra droga e sparatorie, è facile che i personaggi siano tutti classici e impeccabili (vedi Diabolik, dove l'assenza di volgarità non pesa perché è parte di quel mondo ancora un po' sixties e naif)

    Invece, se il racconto è realistico, la gente deve imprecare e pure sbagliare a parlare.
    E' questo che ho sempre amato di Distretto di Polizia rispetto alle altre serie, spesso americane, dove nessuno dice mai cose scomposte. Irreale.

    Moz-

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    1. In fondo, nemmeno sulle parolacce mi hai dato torto: anche tu ammetti che il linguaggio deve essere funzionale sia al contesto, sia al tenore dell’opera, a meno che non si voglia volutamente richiamare un classico… ma io non amo i classici, se non per ragioni di studio… dunque mi rivedo di più in opere che abbiano un linguaggio nel quale mi possa rispecchiare.
      L’importante, a mio avviso, è non strafare. Occorre evitare che la volgarità diventi connotativa, emblematica dell’opera. Pensa ad Ammaniti: lui di parolacce ne dice, e anche moltissime… però alcune sue opere hanno una profondità incredibile. :)

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    2. Quello sta allo scrittore... si può essere volgari anche con classe.
      E se poi bisogna fare un racconto basato sulla volgarità (mi è successo, lo trovi anche sul mio blog^^), allora puoi darci dentro!! XD

      Moz-

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    3. Si può anche essere di classe usando volgarità. In "Saltatempo" di Benni ho trovato anche una bestemmia, ma non involgariva...anzi :)

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    4. Ecco, appunto... dipende dallo scrittore e dal suo piglio.
      Se devi far parlare una persona luridamente volgare, e dare al lettore il senso di schifo, non puoi tirare il freno a mano... :)
      In ogni caso, ribadisco, hai scritto un ottimo post!^^

      Moz-

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    5. Ti ringrazio! :)
      Anche a me piace il tuo stile e leggendo la tua biografia noto che abbiamo fatto studi simili. La mia specializzazione si chiamava, però "linguaggi dei media" e dipendeva da lettere.
      Posso chiederti l'età, se non ti spiace?

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    6. Vorrei poterti rispondere "eterno dodicenne" ma non ci cascheresti.
      Quindi ti dico che so essere anche sedicenne o ventenne, all'occorrenza. Ma di primavere sul groppone ne ho quasi 31.
      A te non la chiedo perché, nonostante io sia volgare, resto pur sempre un po' cavaliere! :D

      Moz-

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    7. La mia data di nascita è scritta anche nella pagina "mi presento", nessun mistero: a ottobre ne compio 33 ... avevo immaginato che fossimo della stessa generazione di sboccati :D

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    8. Ahaha, alla grande allora! :)
      In effetti non ho letto quella pagina ma rimedio subito!

      Moz-

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  2. Oddio, mi pareva di aver commentato!!

    Moz-

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    1. Ah ecco, ci sono...non so perché prima non riuscivo a vedere il mio commento... perdonami il casino XD

      Moz-

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    2. Tranquillo, è da ieri che blogger funziona a manovella :)

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  3. Hai ragione, è difficilissimo trovare un giusto equilibrio e il troppo stroppia in un caso e nell'altro. A dire il vero, di parolacce non ne faccio uso quando scrivo, però questo a volte mi costringe a scrivere cose tipo "oh, cavolo" nei dialoghi e mi domando se dimostrerà abbastanza stupore!!
    Parlando d'altro, ho letto qualche recensione di "A volte ritorno" e mi ero incuriosita... però mi pare che ci siano pareri discordarti in giro. Insomma, me lo consigli tutto sommato?

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    1. A Nieven e al suo romanzo la sufficienza tutto sommato gliela do, se non altro perché mette in evidenza tutta la falsità e l’ipocrisia della società moderna, in cui le persone si sentono in pace con la coscienza perché vanno in chiesa ma poi sono pronte ad uccidere. Condivido pienamente con questa posizione, perché non sopporto il buonismo dal retrogusto cattolico. Però ammetto che urta, soprattutto nel linguaggio volgare e in alcune immagini, veramente crude… che forse non ci provocherebbero fastidio, se non riguardassero Gesù.
      Per quel che riguarda le parolacce, mi vengono in mente alcune traduzioni degli anime, dal giapponese all’Italiano. Là dove in lingua originare c’è un “bastardo”, compare un “farabutto”.. e a me questa cosa fa tanto ridere. Ne uso poche, ma ci sono situazioni in cui secondo me non se ne può fare a meno.
      P.S. Ti ho risposto via email!

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    2. P.S. Riflettendo sulle parolacce, credo di usarne di più quando scrivo che quando parlo :)

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  4. Secondo me se un personaggio è volgare, deve avere un linguaggio volgare e così via. Ovviamente sta poi a noi come autori il sceglierci un punto di vista e dei protagonisti che ci siano congegnali. Io non riuscirei a gestire un protagonista sboccato e ancor meno ad averlo come io narrante, ma i personaggi secondari... Ecco non posso certo snaturarli. Devo ammettere che mi sono sentita a disagio a scrivere una sequela di bestemmie che a un certo punto usciva dalla bocca di un mio personaggio, ma lui parlava così e io come autrice non potevo farci niente.
    Stessa cosa vale per il narratore, secondo me, chi sta raccontando la storia? Non siamo mai noi, c'è sempre un narratore in mezzo, che però scegliamo noi. Se il tono deve essere provocatorio e volgare... Che lo sia! Se però non è nelle nostre corde (di certo non è nelle mie) perché sforzarsi?

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    1. In linea generale sono assolutamente d’accordo con te: un eccesso di volgarità mi darebbe fastidio sulla carta così come me ne da nella vita. Quando mi trovo ad avere a che fare con persone che dicono troppe parolacce mi indispettisco: non sai quanta energia negativa mi ritrovo appiccicata addosso.

      Però penso che una parolaccia possa scappare, in determinate situazioni, anche ad una persona sostanzialmente elegante e colta. Anzi: fa più effetto, perché aiuta a definire meglio lo stato d’animo ed a porre l’accento sulle emozioni.

      Nemmeno io potrei scegliere un protagonista volgare. In passato l’ho fatto. In un racconto, mi è capitato di assumere il punto di vista di un ultras… lì di parolacce ne ho messe molte, e mi sono anche divertita. Adesso ho esigenze diverse.

      Se i miei protagonisti sono puliti nell’anima, anche il loro linguaggio deve esserlo. La parolaccia salta fuori in contesti precisi, e serve soltanto a connotare e contestualizzare. Ma sono casi molto rari.

      Anche lo scorrere del tempo ha un suo valore: la storia occupa un arco di tempo molto lungo. I personaggi principali, a vent’anni parleranno in modo diverso rispetto a quando ne hanno 30, soprattutto quelli che cambieranno contesto sociale nel corso della vita.

      In generale cerco di immedesimarmi il più possibile, e lascio che il linguaggio scorra spontaneo. Quando dovrò revisionare, avrò modo di aggiustare il tiro.

      Sono d'accordo con te sul fatto che non ci si debba mai sforzare. Sai che sono un'amante della libertà e non mi piacciono le costrizioni, né nella scrittura, né nella vita :)

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  5. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  6. E' vero che lo scrittore educa il suo pubblico, ma questo secondo me resta un'effetto collaterale e non un obiettivo. Comunque mi interesserebbe molto di più educare ai sentimenti che non alla cultura in sé.
    Le parolacce fanno parte del mio llnguaggio quotidiano e non mi disturba usarle anche quando scrivo, ma solo quando la situazione lo rende opportuno. Quando posso evitarle senza creare danni, lo faccio per riguardo a chi legge. I regionalismi cerco di limitarli ai casi in cui il termine è molto conosciuto e rende più "saporita" la voce parlante. Le espressioni gergali invece le evito per quanto possibile, perché connotano il testo in modo pesante e spesso lo fissano nel tempo e nello spazio. Sul momento l'effetto è di maggiore realismo, ma prova a rileggere il testo tra dieci anni...

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    1. Secondo me, il concetto di "cultura" è omnicomprensivo. Morin la definiva come l'insieme dei miti, dei riti e dei simboli che vanno a costituire il senso comune di una collettività. Anche i sentimenti, anche se può sembrare triste, in un certo senso ne fanno parte perché il modo di viverli spesso cambia e si evolve nel tempo. A me piacerebbe che i miei libri portassero nelle persone una nuova consapevolezza spirituale... può sembrare un obiettivo megalomane, forse, ma ci sono concetti per me imprescindibili che strisciano fra le righe di quanto scrivo.

      Concordo con le espressioni gergali: non le avevo mai considerate sotto il profilo della "contemporaneità". Una ragione in più per evitarle, dal momento che non le ho mai amate.

      In generale posso dire che nella mia scrittura evito ciò che mi da fastidio anche nella vita: un eccesso di parolacce, così come di espressioni gergali, mi urtano e mi rendono difficile comunicare con la gente. L'idea di utilizzarne a dismisura nemmeno mi sfiora. :)

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  7. toc toc, è permesso? :-)
    ecco la mia grazia si ferma a qua, ché sono una persona che si esprime colorando a schizzi, specie nei momenti topici.
    se c'è una cosa che mi disturba, è il linguaggio in serie di certi adolescenti.. ne ascolti uno e li hai ascoltati tutti.

    la cultura incide eccome, perché tanto uno più sa, tanto più po'... a volte mi si incula con una eleganze, che mi porta persino a chiedere "è stato bello? piaciuto?".

    :-)

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    1. Benvenuta!
      Il tuo post mi ha fatta sorridere, e dopo una giornataccia ci vuole. ;)
      Se sei così propensa alla parolaccia, immagino che non ti infastidiscano nemmeno nei libri, right?
      Da scrittrice, a volte mi prende un po’ di scimmia paranoica, quando ne faccio uscire troppe.
      Nella vita, ne uso a spizzichi e bocconi.
      Quando sono a contatto con persone troppo volgari (e con una di esse ho mio malgrado a che fare quotidianamente) dopo un po’ mi irrito. Non penso di essere fighetta o snob. Semplicemente penso che il nostro linguaggio un po’ ci rispecchi. Se dalla bocca di qualcuno esce solo merda, è perché ce l’ha nell’anima.

      A rileggerti (spero)

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    2. Ma no, perché mai le "parole sporche" dovrebbero denunciare una sporcizia interiore? C'è chi le usa con sentimenti negativi e chi le usa in serena letizia. Io appartengo alla seconda famiglia; mi ci diverto, sono persino creativa. Questo non significa che senta il bisogno di imporle agli altri, che magari sono di gusti diversi, perciò seleziono le situazioni e mi adeguo volentieri.

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    3. Anche io le uso in libertà e allegria, però credo che spesso un eccesso (ma parlo dell'esagerazione, del volerle mettere ovunque e comunque) dipenda dal bisogno di tirare fuori qualcosa da negativo. Forse io sono condizionata da una mia esperienza personale, perchè ho a che fare con una così, e credimi, le sue azioni rispecchiano il suo linguaggio... ma non ne voglio parlare in pubblico, spero avrò presto occasione di raccontarti meglio

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    4. Immaginavo ci fosse qualcosa di personale dietro la tua frase.

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