Guest-post - Sei presupposti per potersi davvero esprimere.


Un anno e mezzo dopo la messa online di Appunti a Margine, inizio a cogliere i primi frutti della notorietà (N.B. sono ironica, non me la sto tirando!): un tempo ero io a chiedere ad altri blogger di scrivere un guest-post. Le uniche auto-candidature che ricevevo riguardavano solo articoli promozionali, brani sgrammaticati e volgarissimi copia-incolla. Ora invece sono gli altri a farsi avanti, e questo mi fa piacere.
Ieri, a causa di un “problema tecnico” (i dettagli in privato) non ho potuto pubblicare l’aggiornamento e  la logistica delle mie routine mi impediva di scriverne un altro. Invece di dare di matto, ho cercato di affrontare il contrattempo con serenità, muovendo energie positive. E stamattina, come un regalo dall’universo, ho ricevuto un bell’allegato. Dopo aver letto il post, ho deciso di pubblicarlo immediatamente. Sebbene l'argomento sia diverso da quelli che affronta abitualmente, Alessio Montagner ha scritto bene come sempre e condivido pienamente la sua linea di pensiero.
Buona lettura!

Io non ho mai voluto fare lo scrittore. Non ho neanche mai voluto fare il pittore, se è per questo. A tre anni volevo fare l’astronauta; a sei anni lo “scienziato” (di che tipo, non si è mai saputo); poi, dai sei ai diciotto anni, ho sognato solo di fare il mantenuto; ora, l’idea sarebbe quella di fare il professore.
Ho sempre avuto però una certa tensione verso la creazione artistica. Sento percezioni profonde che ho bisogno di comunicare, e non avendo nessuno vicino, ho bisogno di esprimerle in un modo diffuso. Un tempo ci riuscivo con la scrittura. Poi, di colpo, non ci sono più riuscito: un tempo scrivevo tutto il giorno a fiume, oggi mi stanco subito e non riesco a mettere insieme tre parole in un’ora. Ho cercato di capire il perché, e l’illuminazione alla fine mi è arrivata provando a praticare dal nulla un’arte per cui ho una grande passione ma nessuna preparazione: la pittura (e anche un po' di arte concettuale). E ho capito alcune cose…

1- NON AVERE VERGOGNA DELLE PROPRIE EMOZIONI
È molto più duro di quel che si crede mostrare le proprie emozioni. Oserei dire che è disumano. Il motivo? Mostrare di avere emozioni vuol dire anche ammettere di avere debolezze: è come se stessimo dicendo “Vedi? Qui sono debole, se mi colpisci qui puoi farmi male.” Il processo stesso dell’empatia è un modo per fuggire a questo: ci sforziamo di trasmettere l’emozione a una persona affinché anche lei mostri debolezze: qui allora stiamo dicendo “Io sono debole, ma ora pure tu sei debole.” L’empatia non è necessaria: al principio di tutto c’è l’espressione. Un artista non può avere paura di mostrarsi debole e mortale, altrimenti è proprio finita.

2- IL FRUITORE NON MERITA RISPETTO
Il punto uno è pop; questo no. So che non siete d’accordo, perché tutti siete fruitori, e anche io lo sono. Ma il fruitore non va rispettato; anzi, è già tanto se gli si fa la grazia di non disprezzarlo. Secondo Pinker ciò che nella postmodernità determina l’arte non è la creazione ma la fruizione: l’artista si è isolato sempre di più, è diventato sempre più oscuro, e alla fine ha creato opere che solo una stretta cerchia di persone possono capire. L’arte non è al servizio del fruitore, ma lo sfida: l’arte stessa dice “Andiamo, vediamo se riesci a decifrarmi”; e poiché tutti vogliamo ricevere il piacere dell’arte, questa diventa una cameriera scorbutica, che ti insulta, una con un’imene di bronzo che ti dice “Vediamo se sei abbastanza uomo!”
Ed è giusto che sia così. L’unica mente che l’artista conosce è la sua; l’unica sensibilità cui ha accesso è la sua propria. Se cerca di accontentare un pubblico, se si sforza di essere oltremisura chiaro, se crede che la gente sia stupida, l’arte che ne risulterà non potrà che essere affettata e depersonalizzata.
La verità è che bisogna avere in schifo il successo. Per finta, certo; ma bisogna averlo in schifo, almeno all’inizio. Se si fa arte solo per avere successo, solo perché si è affascinati dal personaggio famoso, si sta già sbagliando qualcosa. Non esiste nessuna persona da accontentare, il libro non è una lettera: è solo espressione autoreferente, perché è contro le sue possibilità essere qualcos’altro. L’arte è più importante del fruitore: il fruitore è qui di passaggio, l’arte rimane. Se l’arte è grande arte, è il fruitore che deve inginocchiarsi e sforzarsi di adattarsi all’opera: non è certo l’opera che deve farsi capire. E se il fruitore non capisce, affare suo: l’opera può restare benissimo nel cassetto, è già espressione cristallizzata, prima o dopo della fine del mondo qualcuno la prenderà in mano, e non c’è bisogno d’altro.

3- RECIDERE OGNI VINCOLO
Ripeto: l’unica sensibilità a cui abbiamo accesso è la nostra propria. Siamo tutti soli: non conosceremo mai le menti altrui; tutto il mondo che vediamo si realizza nel nostro cervello, non nella immanenza della realtà, e quando non ci siamo più noi, non c’è neanche più il mondo che abbiamo conosciuto; ci sarà quello degli altri, ma non il nostro. Solipsismo!
L’artista deve voler esprimere la sua sensibilità: non può volere altro; se lo vuole, sarà fallimentare. L’artista allora deve esplorare la sua sensibilità, ma ignorare quella degli altri. Gli artisti di arti visive possono fare quello che vogliono, ed essendo puramente elitari non hanno bisogno d’altro, perché si rapportano con i pochi, perché a loro basta vendere una singola opera; così non è con gli scrittori, che rapportandosi con un pubblico enorme devono scrivere in modo da essere letti da molti, visto che per sopravvivere bisogna vendere migliaia di copie. E invece no! Sbagliato! Non si fa arte per sopravvivere, per sopravvivere ci si trova un lavoro in fabbrica. L’arte non ha nulla a che vedere col successo, l’arte ha a che vedere solo con l’espressione.
L’artista deve autoaffermarsi totalmente nell’opera; deve realizzare ciò che gli piace realizzare, e non andare oltre. L’arte deve partire solo da sé stessi, non bisogna basarsi su tradizioni, su tendenze critiche, su usi e consuetudini, su buone pratiche: sono tutte malattie che, cercando di far ottenere un successo che non serve a nessuno, uccidono l’espressione.

4- LA PERFEZIONE È NOIOSA
A nessuno piace davvero la perfezione. Se un uomo è sia bello sia intelligente sia simpatico tutti lo prendiamo in antipatia. La più grande bellezza dell’Eneide sono i versi incompleti. Dante è bello anche perché di tanto in tanto buttava là rime facili. Tolstoj ci fa piangere perché scrive come un bambino delle elementari, ripetendo sei volte una parola nella stessa frase. L’innocenza, e l’umanità manifesta nell’imperfezione, sono emozionanti.
Questa è la cosa più importante, perché è quella che davvero mi blocca. Cercare di essere perfetti da subito, dover fare da subito frasi perfette, fare cose che devono per forza piacere a tutti. No, non bisogna essere perfetti. Non è vero che se non si cerca di fare le cose per bene non si migliorerà mai: nessuno è mai migliorato riscrivendo cento volte una stessa frase, così come nessuno è mai migliorato ridipingendo sette volte uno stesso occhio. Si migliora cambiando opera. E anche se si migliorasse facendo e rifacendo lo stesso dettaglio, si rovinerebbe l’opera in corso. Non si può andare oltre le proprie capacità: se si cerca di curare alla perfezione un singolo particolare, questo si troverà lo stesso circondato da imperfezioni: le esalterà, e sarà incoerente.
Non bisogna avere paura della sgradevolezza dell’arte. Sentite che cose belle dice Van Gogh: “Se un quadro di contadini sa di pancetta, fumo, vapori che si levano dalle patate bollenti , va bene, non è malsano; se una stalla sa di concime, va bene, è giusto che tale sia l’odore di stalla; se un campo sa di grano maturo, patate, guano o concime, va benone, soprattutto per gente di città.” Non bisogna aver paura dei propri errori. Si possono correggere dopo, ma si possono anche esaltare. Una frase dissonante e spiacevole non è cattiva, se si sta descrivendo una condizione di disagio. Un paragrafo confuso e disordinato non è male, se si sta descrivendo una stanza in disordine. Frasi lasciate a metà ed errori di battitura vanno benissimo: un paragrafo distrutto, mentre ci si aggira tra le macerie di Varsavia.
Questo non vuol dire però che l’artista debba lasciare andare le cose così come gli vengono. Questa è la malattia causata dalla fame di successo, è la condizione dei morti di fama, che pur di far sentire il loro nome pubblicano le bozze. Se si parte dal presupposto che pubblicare non serve, e che dopo mesi di lavoro l’opera troverà il suo posto definitivo nel cassetto, allora questo non può accadere: se non si riesce a curare l’opera per gli altri, di sicuro lo si farà per sé stessi. L’artista si riconosce perché ha amore per il dettaglio minuto: il vero pittore non si accontenta della forma generica, ma cura la gradazione di ogni tinta e il tracciato di ogni linea; il vero scrittore non vuole solo scrivere una bella storia, ma studia la carica espressiva di ogni singolo termine e scelta sintattica. No, non deve cercare la perfezione dove non può raggiungerla; ma non deve neanche accontentarsi delle bozze. Deve solo essere lui a dire quando l’opera è finita.

5- IL CONTROLLO NON SERVE A NULLA
Nessun artista ha mai avuto reale controllo su ciò che stava facendo. Neanche Leonardo ha mai potuto avere pieno controllo su ogni setola del suo pennello: se risorgesse e provasse a copiare un suo stesso quadro otterrebbe inevitabilmente qualcosa di diverso.
L’aleatorietà può essere esaltata. John Cage preparava il suo piano con viti e bulloni mobili in modo da non avere mai pieno controllo sul tipo di suono che ne sarebbe uscito: va benissimo, tanto anche di norma il completo controllo non c’è. Gerhard Richter dipinge con immense spatole che distendono il colore in modo imprevedibile: ma perfetto, tanto l’artista sa riconoscere l’opera bella, e che questa sia ottenuta tramite il controllo o tramite il caso non cambia nulla.
Non bisogna avere paura di affidarsi alle proprie percezioni istintive. Se una parola che vi è balzata in mente dal nulla pare dare tutto un nuovo senso alla frase anche se ragionevolmente non c’entra nulla, evidentemente è la parola giusta. Blaise Pascal dice che “Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce.” Ha ragione. Ma in realtà, non esiste proprio alcuna ragione. La ragione può esistere solo se esistono assiomi arbitrari che determinano il suo funzionamento, e questi assiomi non può porseli da sola. È la sensibilità che pone gli assiomi secondo cui lavora la nostra ragione: per quanto si possa scavare tra cause e conseguenze, alla fine si risale sempre a un principio irrazionale di ogni analisi. Perfino l’analisi matematica non è ragionevole: anche la matematica esiste solo grazie ad assiomi sulla cui veridicità è impossibile esprimersi; e si pensa che l’universo stesso possa avere elementi non descrivibili matematicamente.
E allora, tanto vale bandire la ragione, e affidarsi alla propria sensibilità. La pancia è più intelligente del cervello: il cervello nota qualcosa e cerca di capirci, quando la pancia ha già notato tutto, e si sta sforzando di dirci la soluzione. Non ignoriamola: il cervello non è fatto per sopportare la complessità del reale, mentre la pancia, nella sua oscurità, può elaborare ogni dato.

6- SE NON PROVI IMMEDIATA E NATURALE SODDISFAZIONE, È MEGLIO CHE CAMBI SUBITO MESTIERE
È facile giustificare tutto col genio. In realtà l’unico elemento unificante tra tutte le grandi personalità è una soglia minima di esercitazione pari a diecimila ore. Poincaré non è un matematico migliore di William Sidis perché più intelligente, è un matematico migliore perché lui ha dedicato alla sua materia trentamila ore, William Sidis solo venticinquemila.
Ma come si fa a dedicare tanto tempo ad una attività, se già la sola idea di praticarla non dà irresistibile piacere? È una tortura: non ci si riuscirà mai. E se non si riuscirà a donarle tempo, non si riuscirà neppure a migliorare. Se la propria mente si danneggia e non riesce più a ricavare piacere da una attività, e inutile farsi violenza, qui non siamo per l’accanimento terapeutico: reset completo, carta bianca, e si cerchi una nuova forma d’espressione.
Bisogna essere soddisfatti di ciò che si produce: è la prima cosa. Non importa il livello di perfezione. Io mi rendo conto che i quadri che ho realizzato sono un coacervo di difetti: ma chi se ne importa? I difetti si limeranno con l'educazione e il tempo; intanto mi sono divertito a farli, e mi piace guardarli: cos'altro posso volere? Scrivere una storia per raccontarla a sé stessi, essere soddisfatti di questo divertimento autoreferente, e non cercare nient'altro, men che meno la pubblicazione: questa è la via.

CONCLUSIONE

Io credo che sia importante cercare sempre di praticare più di un’arte. Un’arte creativa, di espressione, non di performance. Prendiamo tutti la scrittura come una cosa seria, ed è per questo che non scriviamo bene. Arzigogoliamo su per ogni dettaglio, per ogni problema, con la nostra voglia di essere conosciuti e di autorealizzarci; e sbagliamo tutto, e ci dimentichiamo così di qual è il vero stato dell’arte. Provare, così, un’arte di cui non si sa assolutamente nulla, permette di riprendere il contatto con la vera essenzialità della creazione. È come andare a vivere nella foresta dopo tre decenni a New York. Si ha bisogno, dopo un po’, di sentire il canto della terra, come si ha bisogno di sentire l’emozione della creazione innocente. Porsi con ingenuità e candore davanti all’arte non è male, è anzi l’unico modo per capire cosa conta davvero, e come davvero si vuole lavorare. Ci sono dei motivi se Parise il suo libro migliore lo ha scritto a 20 anni, e poi non c’è più riuscito; ci sono dei motivi se Moravia l’unico libro scritto davvero bene lo ha creato prima dei 18 anni; ci sono demotivi se di d’Annunzio e Montale e Pascoli e Pasolini ricordiamo davvero e ancora leggiamo solo la prima opera, e ignoriamo tutto il presupposto perfezionamento successivo; ci sono dei motivi se la Gerusalemme Liberta è più bella della Gerusalemme Conquistata, se molti preferiscono il Fermo e Lucia ai Promessi Sposi, se 1805 merita di essere letto tanto quanto Guerra e Pace. Può anche non essere sempre così, non importa: non dimentichiamoci del piacere dell’arte, non dimentichiamoci della creazione vigorosa e spensierata.

L'autore del post. 
Sono uno studente, mi interesso alla letteratura da alcuni anni, e dall’anno scorso ho iniziato a buttare su carta, con scarsi risultati, qualche prosa. Il mio autore preferito è, nonostante tutto, D’Annunzio; il mio libro preferito, l’Eneide.
Il mio sito è: https://convivioamoris.wordpress.com/

Commenti

  1. Oggi Alessio lo si trova un po’ ovunque… XD

    Mi ha colpito questa frase: «È molto più duro di quel che si crede mostrare le proprie emozioni. Oserei dire che è disumano». Condivido il pensiero e per molto tempo (e forse ancora oggi) non ho scritto proprio per questo motivo; allo stesso tempo ho sempre invidiato quelle persone che riescono a parlare dei propri problemi, perfino con trasporto, anche con un estraneo incontrato per caso. E ce n’è, di queste persone. Ne è pieno il mondo. Io ne incontro una a ogni angolo ed è una fortuna, perché parlando di loro, nei miei scritti, evito di parlare di me.

    Infatti Pincher è difficilissimo da leggere; non perché utilizza chissà quali oscuri termini o giri di periodi astrusi e contorti, ma perché fa della digressione forsennata, ossessiva, il proprio marchio di stile. Mi chiedo se abbia senso scrivere in questo modo. Non è una critica, ma una valutazione. La pittura può permettersi di essere oscura, astratta fino all’inverosimile; ma la scrittura?

    Concordo, invece, sul fatto che l’artista si debba auto-realizzare, e che lo faccia attraverso l’opera d’arte. Ma ci sono anche scrittori che non hanno pretese tanto elevate e meritano altrettanto rispetto se riescono a intrattenere il loro pubblico.

    Invece rimango impantanato in questa frase: «tanto l’artista sa riconoscere l’opera bella»; cos’è un’opera bella? come la si riconosce? c’è una bellezza assoluta il cui canone è riscontrabile scientificamente?

    Infine: è chiaro che se scrivere non ti piace è inutile farlo. L’accanimento a che serve? per una forma di auto-realizzazione ideale? È una cosa simile alla masturbazione: non porta da nessuna parte. «Scrivere una storia per raccontarla a sé stessi, essere soddisfatti di questo divertimento autoreferente, e non cercare nient'altro, men che meno la pubblicazione: questa è la via»: questo lo scritto qualche tempo fa... :)

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    1. Refuso: *l'ho scritto qualche tempo fa.

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    2. Parlare con gente che non conosci dei tuoi sentimenti è più facile, perché se non conosci quella persona è come farlo con un nessuno, con una entità astratta che sai non troverai mai più. Lo stesso motivo per cui taluni si sentono meno inibiti nel fare sesso occasionale che per amore. Ma se si rendessero conto che una persona che conoscono potrebbe sentirli, non credo che si esprimerebbero: ci si esprime con gli estranei perché si ha un controllo sulla comunicazione; ma se si sta scrivendo qualcosa che chiunque voglia può leggere, si sente sempre il rischio.

      Scrivere in modo oscuro è una questione di poetica. Sono tanti anche i filosofi (quindi gente che si presuppone stiano scrivendo per comunicare qualcosa di preciso) che decidono di scrivere in modo volutamente relativo e poco comprensibile: Nietzsche stesso, in realtà, ha scelto come opera più importante una allegoria tutt'altro che chiara (nonostante uno stile che chiaro dovrebbe esserlo). Dietro ci sono meccanismi molto complessi. Anzitutto dovremmo chiederci se davvero la lingua è un buono strumento comunicativo, o se invece non sia un mezzo troppo generalizzante e opaco, e non sia necessario usare la lingua in modo diverso.
      Esiste un tipo di scrittura poetica che è fuori dal mondo tanto quanto un Mondrian: per esempio, Laforgue, Dino Campana, Carlo Dossi. E ovviamente l'ultimo Joyce, Ezra Pound,Gertrude Stein (che cercava un equivalente in scrittura del cubismo), Bourroughs (che voleva portare in letteratura i principi dell'arte contemporanea come il ready-made e il collage).

      Ognuno può avere la poetica che vuole ovviamente. Ma per me (per la mia persona) non è sano cercare di intrattenere un pubblico.

      Ovviamente è Gerhard Richter a decidere cosa è per Gerhard Richter un'opera bella. Il punto è che non importa come la ottiene, tramite il caso o tramite il controllo logico, basta che la ottiene. è abbastanza significativo che Richter mostri la sua bellezza sia tramite fotobilder che tramite astratti: da un lato il controllo più totale, dall'altro la più libera estasi creativa.

      Infatti accanirsi non serve. D'altro canto, neanche non accanirsi serve. Il punto è che non c'è proprio alcun posto dove andare. Non ci stiamo spostando, non dobbiamo farlo, non c'è alcun luogo dove possiamo andare: noi siamo già arrivati. Lao Tse scriveva "Senza uscir di casa si comprende il mondo. Senza sporgersi dalla finestra si individua la via del cielo. Più si viaggia lontano meno si conosce. Quindi l'uomo saggio sa senza spostarsi, capisce senza guardare, e opera senza fare."
      Non è da me dire cose del genere ovviamente. Questo post è probabilmente il più assurdo e logicamente sbagliato che ho mai scritto. Ma è il più importante. è anche una dichiarazione di poetica generale.

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    3. (...ho provato tre volte a pubblicare, alla fine ho dovuto usare l'account google dell'università. Spero non se la prendano XD)

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  2. L'arte, ammesso che la narrativa lo sia, deve essere gioia e sofferenza. Deve esserci dentro la nostra sofferenza, ma lo scrivere (così come il disegnare, il suonare, il cantare, il ballare, non capisco perché escludi le performing art) deve dare una gioia immediata. Non so, se uno mi dice che non è felice mentre scrive o è un mio alunno che cerca di scantonare i temi (e qui parte il pippone sull'importanza di imparare ad esprimersi con lo scritto) o gli chiedo perché scriva.
    Però non sono d'accordo sul non rispettare il fruitore. Come fruitrice se mi sento presa in giro non torno una seconda volta. Pur apprezzando alcuni artisti di arte contemporanea (non mi dispiace affatto l'astrattismo geometrico, ad esempio) ci sono altri casi in cui mi sembra tutta un'ostentazione eccessiva e inutile. Insomma, a volte sembra che la comprensione di un'opera non valga il mio sforzo intellettuale e io lì mi fermo. Ritengo che rispetto verso al fruitore debba voler dire questo: la fatica che si richiede deve essere ripagata con qualcosa di unico, raro e prezioso. Se non sono certa di offrire qualcosa di unico, raro e prezioso, ma solo di "carino", allora meglio farla semplice e fruibile.

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    1. Parlare di "narrativa" è già di per sé cosa limitata. Io non ho interesse per la narrativa, ho interesse per la scrittura. Anche perché cercare di distinguere la narrativa da altri modelli di scrittura ad un certo punto diventa difficile: Carlo Dossi è narrativa? Laforgue? Il conte di Lautremont? (lui è più facile, ma in certi punti avrei comunque il dubbio.) Che la scrittura con scopo estetico sia arte, direi che non ci possono essere dubbi.
      Escludo le performing art perché non sono arte, esattamente come non lo è l'architettura. Non sono cioè espressione propria: casomai è il tentativo di rendere al meglio l'idea d'espressione di un'altra mente; o comunque è un modello d'espressione con limiti decisivi. L'unico tipo di performance che può essere considerata arte è appunto la performance d'artista, quelle che fanno gente come Marina Abramovich e Mia Florentine Weiss.
      Capisco la seconda parte. Ma: cosa è unico, raro, e prezioso? E chi giudica se lo è? E se questa cosa c'è, ma semplicemente la tua mente è inadatta a entrare in sintonia con quell'altra mente creatrice, e quindi non riesce semplicemente a puntare gli occhi nella direzione giusta? D'altro canto, se non c'è qualcosa di unico, raro, e prezioso (qualsiasi cosa sia questa cosa), qual è il problema? Non dobbiamo fare l'errore di pensare al tentativo di pubblicazione come cosa scontata, la pubblicazione è più simile a un incidente casuale che a volte capita (Calvino, in una lettera a Parise - che aveva deciso di smettere di pubblicare -, gli diceva cose simili: gli consigliava di continuare lo stesso a scrivere per sé perché, diceva, l'opera d'arte, una volta ultimata, diventa un oggetto, e ciò che le capita non dipende più dall'autore, sono cose fuori dal dominio dell'arte). E se non diamo per scontata la pubblicazione, la cosa si risolve semplicemente così: se non c'è qualcosa di unico, raro, e prezioso, non la fai semplice e fruibile a forza, ma non pubblichi. A meno che non ti venga naturale farla semplice: ma allora diventa qualcosa di indipendente dalla presenza di qualcosa di unico, raro, e prezioso, perché la faresti così in ogni caso..
      (però è vero che la maggior parte degli artisti contemporanei non sono buoni. Siamo ancora in un periodo di barocco: arte che si limita a stupire e scioccare, senza nulla di più.)

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    2. Sono una fruitrice semplice, del resto ho una formazione storica e non estetica. Come fruitrice sento la necessità di non essere presa in giro. Un testo di fisica quantistica, mettiamo, mi costa una certa fatica intellettuale, ma se alla fine mi dice qualcosa che non sapevo, mi sento ripagata del mio sforzo. Se invece dopo mille formule e parole torniamo a teorie già trite mi sento presa in giro. Allo stesso modo un'opera letteraria che mi necessiti grande impegno ma mi dice qualcosa di diverso dalle altre, che non avrei potuto trovare altrove potrà piacermi o non piacermi, ma non mi farà sentire ingannata. "La nave di Teseo" che mi ha affaticato un sacco la vista e che a fronte di una fatica di lettura immane mi ha rivelato un contenuto insulso mi ha solo fatto sentire cretina per i soldi che ho speso. Mi sono sentita ingannata, non rispettata come fruitrice e quegli autori non avranno mai più la mia attenzione. Dai commenti in giro non sono l'unica.
      Il mio ragionamento è semplice: se mi richiedi fatica devi darmi qualcosa che non trovo altrove, se no mi inganni. A me non piace essere ingannata e quindi preferisco comportarmi col mio lettore come voglio che gli autori si comportino con me.

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  3. Certo, ovviamente ognuno ha la sua poetica. Però capirai che la fatica è una cosa relativa. Un testo di fisica quantistica può essere difficilissimo per una persona, così come essere scorrevole per chi è pratico di matematica. La Nave di Teseo, per dire, è un testo che, proprio dal punto di vista fisico, può essere letto in vari modi, e ogni modo può portare a una diversa sensazione. E se, senza saperlo, si fosse scelto un metodo di fruizione non adatto? (ma tu mi parli di fatica visiva, che è un problema che sta al livello di progettazione fisica del testo, un tipo di problema più alto insomma)
    Ogni testo ha un lettore modello: se fatichi, forse non sei il lettore giusto. Oppure questa fatica è funzionale. Oppure è un processo esterno all'opera, dovuto ad altri fattori: per esempio, la Divina Commedia può essere faticosa, ma a causa dei cambiamenti linguistici, non per l'opera in sé.
    Parlare di "prendere in giro" mi fa strano. Sembri intendere un tipo di rapporto tra autore e fruitore che invece secondo me non esiste. Tutto ciò che esiste nel post-creazione è l'oggetto-opera. Questo oggetto è quel che è, è statico, sostanzialmente immutabile. Davanti ad esso si può porre un fruitore. Questo fruitore non si rapporta con un creatore (che idealmente deve morire una volta messa la parola fine), ma con sé stesso. La lotta per il piacere non avviene con l'autore, ma con le sue medesime percezioni. Qualsiasi cosa l'opera mi causi, è causata dalla combinazione delle caratteristiche dell'opera con le mie caratteristiche di fruizione. Ma poiché l'opera non può che essere statica, se non ricevo piacere dall'opera, e voglio provare piacere, quel che devo fare è, per quel che mi è possibile, ri-adattare i miei processi di fruizione all'opera presente. Ovviamente non sarà possibile in modo illimitato, perché ognuno ha un gusto, cioè una serie di caratteristiche di fruizione non mutabili, ed esistono inoltre opere che richiedono modelli di fruizione così stravaganti rispetto al canone occidentale da non poter essere apprezzati se non da qualche precisa fascia: così è per esempio per Volo. Però secondo me il punto è questo: non è l'opera che deve adattarsi al fruitore, è il fruitore che deve adattarsi all'opera. Io faccio sempre così, nel fruire: non posso mettermi a leggere Guerra e Pace sperando che il bello si riveli da solo dal nulla, ma dovrò studiarmi le logiche compositive dell'opera e adattare la mia lettura di conseguenza; non posso mettermi ad ascoltare Gyorgy Ligeti senza sapere nulla di micropolifonia, e non posso ascoltare Luigi Nono senza capire il funzionamento della musica elettronica, perché se lo faccio e non mi piace è colpa mia, non dell'opera. Questo informarmi non è una fatica, ma è il modo per ricavare piacere. Se una volta fatto questo non si prova piacere, si sta sbagliando, si è fatto qualcosa di inutile perché non ha portato al modello di fruizione adatto. Se leggo Volo, per dire, il mio compito sarà quello di abbandonare ogni pretesa colta, concepire un tipo di amore manierato, e riempirmi di luoghi comuni: questa è la via per ricavarci piacere, e può essere fatto potenzialmente con qualsiasi opera. Ma ovviamente io non ce la farei, perché non sono il lettore modello.
    Se poi quest'opera è vuota di senso, è semplicemente un'opera bassa. Ma questo è indipendente dalla sua complessità apparente. La complessità apparente è variabile, non c'è un autore che sta cercando di fregarti, di sembrare colto, facendo il barocco. Nulla è oscuro per il lettore modello. James Joyce voleva essere oscuro? Sì. Ma se capisci che l'oscurità è volontaria, non si può più parlare di oscurità in senso proprio. E quando lo si capisce, il modello di fruizione diventa quello adatto all'opera, cioè il modello per cui l'accordo tra le caratteristiche dell'opera e quelle del fruitore si risolvono nel piacere estetico.

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  4. Articolo molto interessante. Sono d'accordo quasi su tutto, con un passo di lato per il punto 2: se davvero il pubblico non conta e l'opera d'arte non deve avere altro scopo che l'espressione della sensibilità dell'artista (e penso sia così), capisco perché ho sempre apprezzato l'artigianato più dell'arte. Grazie Alessio, grazie Chiara. :)

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    1. ...fermo restando che il confine tra ottimo artigianato e arte è spesso (sempre?) molto opinabile.

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    2. In fondo in principio l'arte è techne. Però in generale oggi usiamo il termine "artigianato" per intendere qualcosa fatto per una finalità pratica, e "arte" per qualcosa che vuole semplicemente essere "artistico". Mi verrebbe da pensare alla "art brut" o "outsider art", quelle opere d'arte che sono espressione istintiva non mediata da una educazione o da una tradizione.
      Ovviamente comunque ognuno ha una sua poetica. Questo post non vuole definire cosa è l'arte, ma semplicemente indicare quello che per me almeno è un approccio sano alla produzione artistica. Un approccio che non è fatto per accontentare gli altri, ma semplicemente per vivere al massimo l'esperienza. Anche perché credo che per un artista dovrebbe contare di più questo.

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  5. Caro Alessio,
    Seppur l'articolo sia molto interessante, non posso far a meno di notare una certa ingenuità. Che le opere prime siano migliori di tante revisioni mal fatte sono d'accordissimo.
    Il punto è che sbagli nel definire il ''miglioramento''. Il miglioramento cos'è? In cosa si esplica? Di certo non con il mero successo. Come dice Pinker e anche tu, non è il lettore che dà un giudizio. Ci dev'essere un parametro, un canone. Il miglioramento in un senso, magari nel volume di vendite o nell'eufonia delle frasi magari non corrisponde a un miglioramento della tecnica.
    Citando Gerard Genette: «Vi è funzione artistica quando il tecnico e l'estetico si congiungono».
    Dimenticarsi della tecnica è un'ingenuità che non ci si può permettere. Appiattire il discorso a favore della sola estetica o della sola tecnica è quanto di più sbagliato si possa fare.
    Quindi ripeto, articolo interessante, ma ingenuo e che si avvale di quest'ingenuità anche nelle espressioni.

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