"Un piccolo gesto crudele" e le sue motivazioni sballate


"Insistere è testardaggine. Perseverare è determinazione" 
Jacinto Benavente

Ultimamente, la mia presenza sul blog è stata altalenante: mi sono affidata a due guest-post ed ho partecipato ad un giochino perché i numerosi impegni di lavoro che ho in questo periodo hanno quasi polverizzato la mia creatività e la mia capacità di concentrarmi su argomenti di spessore. Anche il mio romanzo, purtroppo, è stato un po’ trascurato.
Oggi, però, deciso di prendere spunto dalla lettura di un libro terribile per portare avanti una riflessione sul rapporto complicatissimo fra le azioni del personaggio e le motivazioni che le muovono. Analizzando un romanzo che non mi è piaciuto, proverò a spiegare perché ritengo fondamentale, ai fini dell’immedesimazione, non solo che ci sia coerenza fra la causa di un evento e l’effetto che genera a livello narrativo ma anche che queste cause siano espresse mantenendo il focus sulle dinamiche interiori. In poche parole, Show Don’t Tell: se ci limitiamo ad un racconto superficiale, il lettore si sentirà estraneo ai fatti. Viceversa, vedere il personaggio in azione, lo aiuterà a sentirlo vicino, a percepirlo come un essere umano in carne ed ossa, a fare il tifo per lui.

"Un piccolo gesto crudele" di Elizabeth George rappresenta una decisa caduta di stile rispetto alle precedenti opere dell'autrice. Io solitamente non mi faccio spaventare dal numero di pagine. Anzi: più sono meglio è. Mi piace calarmi completamente nella vicenda ed affrontare un’impresa che molti lettori da spiaggia considerano titanica. Quando arrivo alla fine del mio tomo, provo una profonda sensazione di appagamento e di soddisfazione. Ma qui si è veramente esagerato: 704 pagine di noia assoluta. Fossero state la metà, forse il romanzo sarebbe potuto risultare passabile.
Partiamo dalla sinossi reperita online:
Quando il professor Azhar scopre che la figlia di nove anni è scomparsa dalla sua casa di Londra insieme a quasi tutte le sue cose, non può che bussare disperato alla porta accanto e chiedere aiuto alla vicina e amica, il sergente Barbara Havers. Presto si scopre che a portar via la bambina è stata la madre, trasferitasi in Italia, a Lucca, per seguire il suo nuovo amore. In bilico tra i sentimenti e la ragione, Barbara si impegna a indagare ufficiosamente sul caso, ritrovandosi presto nei guai con i superiori a causa delle ingiustificate assenze dal lavoro. Qualche mese dopo, però, la bambina sparisce davvero da un mercato della città, e sul caso si accendono i riflettori dei media.
Questo sembrerebbe un giallo con tutti i crismi, vero? Sembrerebbe, appunto. Ed effettivamente non inizia male. Le prime duecento pagine coinvolgono abbastanza. I personaggi paiono sopra le righe ma, al contempo, accattivanti. È altresì difficile individuare un unico protagonista: la palla del punto di vista rimbalza costantemente fra Barbara, il suo capo Thomas Linley e l’ispettore capo Lo Bianco, ovvero il poliziotto italiano che collabora con le forze dell’ordine inglesi.
I primi due, già presenti negli altri romanzi della serie, subiscono un repentino cambiamento di carattere o, forse, un’estremizzazione dei tratti che li avevano contraddistinti fino a quel momento. Barbara, da donna forte e determinata qual’ era, si trasforma in una sciattona volgare ed insubordinata. Thomas, per contro, accentua il proprio carattere mite diventando assolutamente anonimo: più che sull’evoluzione delle indagini, sembra focalizzato su una veterinaria mascolina che parla solo di gorilla costipati. L’ispettore Lo Bianco, forse, è uno dei personaggi con cui il lettore può identificarsi con maggior facilità: è un uomo capace, ironico, e tipicamente italiano.
L’eccesso di stereotipo rischia di allontanare i lettori da molti personaggi, provocando una sottile indignazione in quelli italiani. È un po’ come se io ambientassi il mio romanzo in Germania e parlassi solo di tedeschi biondi e pancioni che tracannano birra e si ingozzano di crauti dalla mattina alla sera.
Abbiamo una mamma anziana (di LUCCA!) che veste solo di nero e vive dentro una torre dove trascorre le giornate a cucinare pasta fatta in casa e venerare le immaginette dei santi; una dottoressa legale sfuggita ad un matrimonio combinato a Napoli (e qui, lo giuro, ero piegata in due dal ridere: nemmeno fossimo a Kabul!) ed un venticinquenne donnaiolo amante delle macchine di lusso. Per non parlare della giovane locandiera incinta, dell’investigatore privato Michelangelo, con i capelli biondo platino e peli scuri su tutto il corpo, di Suor Domenica e di tante altre figure più o meno simpatiche ma assolutamente irrealistiche. Non che i personaggi inglesi siano messi meglio, fra giornalisti di gossip vestiti da cowboy, maggiordomi che vogliono fare gli attori e capiufficio che si comportano da tiranni.
Insomma: forse la George avrebbe dovuto sopprimere qualcuno di questi individui, assolutamente inutile per lo sviluppo della trama, e tratteggiare meglio gli altri. Ma ad accentuare questa mancanza di empatia non è soltanto l’abuso dei cliché: personaggi non sono solo strani, ma ne combinano di tutti i colori senza che l’autrice scavi in profondità sul perché delle loro azioni. Si limita a dare spiegazioni sommarie, alimentando la sensazione di avere a che fare con un manipolo di pazzi furiosi.
Non è facile prendere le parti di personaggi negativi: il lettore, tende a tifare per i buoni. Se si vuole arrivare a questo, occorre esaminare in profondità le loro motivazioni e far sì che il lettore le consideri legittime. Solo mostrandole si può arrivare a questo.
Per spiegarvi meglio, sono costretta a fare SPOILER.  Se qualcuno però ha intenzione di leggere il libro, salti pure l’elenco puntato seguente.
1)Il professor Azhar architetta una messinscena complicatissima che comprende il rapimento della figlia di nove anni ed il suo improvviso ritrovamento durante il proprio soggiorno a Lucca. Il motivo? Ottenere dalla madre il permesso di vederla e frequentarla.
2) Barbara fa cazzate dall’inizio alla fine del romanzo in nome di una cotta quasi adolescenziale per Azhar. Non si tratta di un sentimento profondo e struggente: in tutto il romanzo, si intuisce più che altro una vaga preoccupazione che aleggia sulla superficie della sua indole squilibrata. Non la si vede piangere, disperarsi, strapparsi i capelli: questo presunto amore è espresso solo verbalmente, e persino in modo noioso, sdolcinato e pedante.
3) Quando nelle ultime pagine viene svelato chi è l’assassino (ebbene sì, c’è anche un omicidio), l’ispettore Lo Bianco gli domanda “perché?” e lui risponde “non lo so”. NON LO SO?!? Ma porca miseria! Il movente di un killer è fondamentale. In “Per cosa si uccide”, di Gianni Biondillo, i quattro episodi ruotano quasi esclusivamente intorno alla scintilla che scatena la bestia feroce. Anche una squallida questione di soldi può andare bene: l’importante, è fornire una spiegazione. Diversamente, il lettore rimane spiazzato ed ha l’impressione che a muoversi sulla pagina siano soltanto burattini informi.
FINE DELLO SPOILER.  
L’aveva già anticipato Grazia nel suo guest-post, pubblicato esattamente una settimana fa: senza un solido legame causa-effetto, la storia ha difficoltà a reggersi in piedi. La nostra trama deve essere una strada che conduce alla meta, ma non solo: deve essere quella più logica. Non possono esistere scorciatoie o percorsi alternativi, né soste troppo lunghe in luoghi insignificanti. Ogni elemento che compare nel romanzo deve avere una funzione narrativa. Io, che spesso mi faccio prendere la mano dalla creatività, sono sempre costretta a tagliare tantissimo per evitare che le pagine trasudino di dettagli inutili.
Me lo diceva sempre la mia insegnante di scrittura creativa all’università: se c’è una pistola, prima o poi sparerà. Se la pistola non spara, è inutile che la facciamo vedere. E, se spara, dobbiamo rispondere alle “cinque W”: definire il “when”, il “what”, il “where”, il “who” e soprattutto…Why? Perché la pistola spara? Chi è che la maneggia? Quale percorso psicologico porta il personaggio a premere il grilletto? Il perché deve essere chiaro per noi ma, soprattutto, deve esserlo per il lettore. Non possiamo limitarci a dire “Marco ha ucciso la fidanzata perché era tanto geloso”: dobbiamo mettere in evidenza il tormento di Marco, farlo impazzire sulla pagina, descrivere i suoi comportamenti da stalker ed evidenziare tutti gli stadi della sua devianza mentale. Non importa se decidiamo di farlo alla fine della storia, quando l’assassino viene scoperto. Ciò che conta è che non esistano domande prive di risposta.
Fornire una spiegazione asettica e razionale non è sufficiente: la motivazione deve essere radicata a livello dell’anima, avere origine dalla mente e dal cuore. Solo così il lettore potrà immedesimarsi nel personaggio e fare il tifo per lui. Deve saperlo comprendere ed aver voglia di aiutarlo. E deve incazzarsi a morte quando sbaglia per poi perdonarlo: “dopo tutto, poverino, non avrebbe potuto fare altrimenti”.
Hitchcock, in Psyco, è riuscito a gestire la trama dal punto di vista di un assassino spietato e Charlotte Link, in “L’ultima volta che l’ho vista”, ha tessuto sapientemente le trame mentali di un trentenne sommerso dai debiti che si improvvisa rapitore. La delicatezza con cui è riuscita a descrivere i tormenti di quest’ uomo disperato, mi ha fatto provare una profonda empatia per lui. Alla fine, speravo che riuscisse a farla franca!

A voi è mai capitato di parteggiare per un “cattivo” o, per lo meno, di provare empatia per lui? Ma soprattutto, cosa fate per evidenziare al meglio le motivazioni dei vostri personaggi?

Commenti

  1. Di sicuro non leggerò mai questo libro! Che brutto! Per rispondere alla tua domanda, appena ho letto "parteggiare per un cattivo" mi è venuto in mente Megamind, il brutto cattivo e sfortunato, che per tutto il cartone animato dice di sé "il cattivo non finisce mai per portarsi a casa la ragazza". Anche Cattivissimo Me è stato creato appositamente per far parteggiare il pubblico per il brutto gobbo uomo nero. La figura dell'antieroe sta prendendo sempre più piede nella nostra società (malata). Credo ci voglia molta esperienza per riuscire a giocare così con le emozioni del lettore, a meno che si parli di una persona reale che conosciamo bene, allora forse è più semplice.

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    1. L'identificazione con il classico antieroe è una deriva masochista dell'identificazione con l'eroe bello e perfetto. Si è scivolati in uno stereotipo al contrario. Forse il segreto del realismo è nel saper tratteggiare figure umane sfaccettate e complesse, che sappiano rispecchiare completamente la natura dell'essere umano, fatta di luci e di ombre. Un abbraccio

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  2. Io tifavo sempre per gatto Silvestro! ;)
    Comunque smetterei di leggere pessimi romanzi, fossi in te, e mi concentrerei di più su quello che stai scrivendo. Forse però. ho detto una stupidagine; pensa quante cose hai imparato da questa lettura. Quasi quasi ti invidio. Quasi però, eh? :P

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    1. Ovviamente una persona sceglie un romanzo pensando che si sia bello ;)
      Questa autrice ha sempre scritto ottime opere, erano gialli ben costruiti che mi hanno insegnato molto per quel che concerne la gestione della trama. Nessuna lettura è da disdegnare se si ha sufficiente esperienza per approcciarla con occhio critico.
      Ma toglimi una curiosità : cosa intendi per "concentrati su ciò che stai scrivendo"? Dovrei leggere solo me stessa? XD
      Quando leggo tanto scrivo meglio, per questo cerco di portare avanti le due attività in contemporanea :)

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    2. Infatti mi sono autocensurato... :P

      Potrei batterti comunque: ho acquistato "Il cardellino" di Donna Tartt, 900 pagine. Se è uno schifo divento un serial killer di scrittori.

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  3. La scrittrice che citi non la conosco e a questo punto neanche voglio!
    "L’ultima volta che l’ho vista" l'ho finito di leggere pochi giorni fa e mi è piaciuto molto. Ormai è letto molti romanzi di Charlotte Link e nessuno mi ha deluso. Anche se la scelta dei pdv mi ha un po' lasciata perplessa: perché tra tanti pdv in terza persona ne ha messo uno in prima? Come se considerasse lei la vera protagonista della storia... boh.

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    1. Mi sono posta anche io questa domanda e secondo me è stato fatto perché è assolutamente estranea alla vicenda di Vanessa e di Ryan, quindi una terza persona limitata avrebbe potuto portare il lettore a dire "e questa che cavolo c'entra?". La prima persona, invece, la rende più vicina. Si crea quindi maggiore empatia e maggior connessione con gli altri eventi della trama. Cosa ne pensi?

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    2. Sì, è possibile. Di certo crea uno stacco parecchio forte con il resto. Cmq anche io alla fine tifavo per Ryan... è stata davvero brava ad entrare nella sua testa.

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    3. A me faceva tenerezza, poverino! E mi ha divertita molto la sua ossessione per Damon!

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  4. Sei una promoter nata, Chiara! Per fortuna la George non ti legge (per fortuna per la sua autostima, intendo).
    Credo che si possa empatizzare con qualunque personaggio, se l'autore è bravo nel presentarlo. Il tuo "manipolo di pazzi furiosi" mi ha fatto venire in mente una cosa notata scrivendo: i personaggi che sento di più mi alterano la respirazione. Respiro come se fossi io a vivere la scena, insomma. Di solito quelli sono i passaggi del romanzo che poi mi fanno emozionare anche alla trentesima lettura, durante la revisione. Forse questo tipo di immedesimazione aiuta anche a trovare le motivazioni dei personaggi. Se è così, potrei coltivarla.

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    1. è bellissimo quando succede quello che racconti. Anche a me capita, sebbene stia ancora un po' rafforzando il rapporto con alcuni miei personaggi. Ci sono state diverse modifiche, che ho annotato su un quaderno e che attendo di poter trasferire nelle schede, per avere le idee più chiare. A volte mi domando se, più che annotare in modo maniacale, non possa essere più utile farsi avvolgere completamente dalla scena, finché non ci entra nelle ossa e non inizia a scriversi da sola. Questo secondo me è il risultato di una profonda empatia fra l'autore ed il personaggio. Empatia che, poi, passerà facilmente al lettore. Se i nostri protagonisti sono i nostri migliori amici, il legame si genera spontaneamente. Diversamente, si crea solo distacco, come nel caso della George, dalla quale non mi aspettavo uno scivolone del genere. Di lei, ho apprezzato molte opere: mi sono sentita un po' tradita. Ecco il perché delle mie parole un po' dure :D

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    2. In proposito dovrei anche analizzare meglio il libro che sto leggendo, "La città sepolta" di James Rollins. Questo tizio spopola, scrive bene, ha trame interessanti e descrizioni eficaci (a parte quando inserisce marca e modello di tutto), espone spesso sentimenti e reazioni dei personaggi, mostrando anche i relativi dettagli fisici... e non mi trasmette un'emozione che sia una! A questi livelli è quasi assurdo, come se io e l'autore appartenessimo a una specie diversa. Devo scoprirne la causa.

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    3. Comunque l'empatia è fondamentale, e credo sia alla base dei cambiamenti che facciamo in corso d'opera rispetto alla pianificazione. Quando ti cali nella scena vedi le cose diversamente da quando la pensavi a tavolino (però al tavolino non rinuncerei).

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    4. Quando hai scoperto il motivo, scrivi un bel post! :)
      Io ho una mia idea al riguardo, ma non so se sia corretta. L'eccesso di tecnica, nella scrittura ma anche nella musica, rischia di trasmettere un'idea di freddezza in quanto la creazione artistica è sottoposta ad un eccesso di controllo che snatura il risultato finale trasformandolo in un mero esercizio di stile. Quando io rileggo alcuni miei pezzi, troppo "cervellotici", non mi arriva nulla. Quando invece sono io ad emozionarmi il risultato è molto diverso ...
      Pensando alla musica, mi viene in mente Lucio Battisti: non è che avesse una gran voce, c'era anche chi lo considerava stonato... eppure emozionava tantissimo, ed emoziona ancora oggi. Anche per Vasco (a prescindere dal gusto personale) si può fare un discorso analogo. Gigi D'Alessio, invece, è tecnicamente impeccabile :D

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