Il mio pensiero sull'americanizzazione della letteratura

L’America è una vasta cospirazione per renderti felice.
(John Updike)

C’è un romanzo, edito di recente, la cui pubblicità compare molto spesso nella mia home page di Facebook. Non nomino il titolo perché non è mia intenzione scrivere una recensione. Intanto, dubito che lo leggerò. Voglio però riflettere su una tendenza piuttosto diffusa in molti autori e verso la quale (lo ammetto con rammarico) nutro un forte pregiudizio. La quarta di copertina è al riguardo piuttosto eloquente:

Springfield, Massachusetts. L'agente dell'Fbi John Bay, entrato in crisi dopo la morte in un incidente della moglie Lucy, sembra avere trovato un nuovo equilibrio, anche grazie ai successi professionali raccolti insieme al collega Simon Lower. Ma i tormenti non sono finiti: ad attenderlo ci sono l'improvvisa morte di Simon e le indagini sull'Annegatore, uno spietato serial killer ossessionato dall'acqua. Un folle che vuole "purificare" le sue vittime dalle loro colpe, e per il quale lo stesso John diventerà il bersaglio più importante.

Avete capito di cosa sto parlando? No? Allora aggiungo un dettaglio: l’autore è italiano.

Scommetto che ora è tutto un po’ più chiaro.


L’AMBIENTAZIONE AMERICANA

Il processo di americanizzazione della cultura europea è iniziato negli anni cinquanta del secolo scorso e ha rappresentato il primo passo verso la globalizzazione dei contenuti mediali. I nati degli ultimi sessant’anni hanno avuto fin da bambini accesso a consumi “stelle e strisce”, in alcuni casi, questi sono stati talmente pervasivi da scalzare di netto quelli nostrani. Non sorprende quindi che un autore alle prime armi – specialmente se di giovane età – chiami la sua protagonista Jennifer e le faccia frequentare un liceo di Boston. Un atteggiamento di questo tipo, forse, non è nemmeno una vera e propria decisione: si tratta quasi di un automatismo.

Un autore adulto, però, dovrebbe essere consapevole delle proprie scelte e delle loro conseguenze.

Dovrebbe, appunto. Perché non sempre accade.

Ma a questo arriverò in un secondo momento. Prima, è necessario fare un passo indietro.

IL MIO GUSTO PERSONALE

A me non piacciono le americanate. Con l’eccezione di qualche valido mainstream (recentemente ho gradito “Dio d’illusioni” di Donna Tartt e “Amy e Isabelle” di Elizabeth Strout), tendo a prediligere la narrativa europea, perché rappresenta un mondo che conosco e mi consente di immedesimarmi al meglio nelle vicende narrate. La pochezza e il sensazionalismo di certi romanzi commerciali d’oltreoceano mi annoiano. Non ho mai cercato trame al cardiopalma e finali inverosimili: ciò che chiedo a un romanzo è la capacità di lasciare il segno, che spesso si accompagna alla possibilità di divertirmi e di imparare contemporaneamente. Ho bisogno di qualità, quindi. Di approfondimento psicologico e di un messaggio significativo. Di riflettere.

Circa la metà dei romanzi presenti sul mio Kindle sono scritti da autori italiani. Ritengo infatti che uno scrittore, per diventare un professionista, abbia bisogno di leggere il più possibile opere in lingua originale. La traduzione porta spesso un appiattimento stilistico e rende difficile cogliere tutte le sfumature del linguaggio. Conosco bene l’inglese e il francese, ma non abbastanza da rinunciare al dizionario. Inoltre, ritengo più utile e piacevole addentrarmi in profondità nei meandri della lingua cui ricorro per scrivere.

Sempre per la stessa ragione, pur essendo musicalmente onnivora e amante del grunge, ho sempre gradito i cantautori italiani. Non mi limito ad ascoltarli: li studio. Analizzo lo stile, le figure retoriche, il sotto-testo. Idem per quanto riguarda il linguaggio cinematografico. Il regista che ammiro di più è Giuseppe Piccioni. Stravedo per Luigi Lo Cascio. Considero “La meglio gioventù” una delle mie principali fonti d’ispirazione. Penso che “La grande bellezza” sia un capolavoro, proprio perché poco accessibile a chi non ha le risorse culturali per coglierne il significato. Guai a voi, però, se mi date dell’intellettuale radical-chic. Sono una sociologa. Mi piace comprendere la storia e le dinamiche della mia terra attraverso le sue rappresentazioni artistiche. Non capirò mai i filoamericani: viviamo in un paese con un patrimonio culturale immenso e ci troviamo a scimmiottare un popolo senza storia. Noi, a quelli là, potremmo dare lezione di stile. E invece…

(L’INCOMPRENSIBILE DEMONIZZAZIONE DI CIÒ CHE È ITALIANO)

… Noto intorno a me un forte snobismo nei confronti dei prodotti culturali nostrani e confesso di non essere mai riuscita ad accettarlo. Come fa uno scrittore che ha la pretesa di pubblicare romanzi in italiano a leggere solo opere straniere, e quindi tradotte? Come fa ad apprezzare solo la narrativa d’oltreoceano? Per il motivo che ho citato prima, è assurdo. Eppure ne conosco tanti così.

Non parliamo poi di canzoni!

Molti giovani sono lobotomizzati dai deejay. Quelli della mia età (classe 1981) piangono ancora la morte di Freddie Mercury e storcono il naso appena in radio passa Jovanotti. Su Facebook c’è una pagina che si chiama Musicademmerda, e che ha come unico scopo quello di insultare gli artisti nostrani, come se all’estero il genio creativo esplodesse limpido e cristallino al di fuori di ogni dinamica commerciale.

Al teatro Ariston, quando non ci sono concerti o spettacoli, vengono trasmessi i kolossal americani, perché sono gli unici a fare il pienone. Gli adolescenti non sanno chi sia Battiato, ma conosco Rihanna.

Potrei citare mille esempi di questo tipo.

Alla luce di tali considerazioni, posso comprendere gli scrittori che americanizzano le proprie opere spogliandole della propria specificità culturale: là dove impera l’ignoranza, il paraculo si adegua.

Ma davvero questi individui sono convinti di poter vincere con tanta facilità?

LA SPECIFICITÀ CULTURALE DELLO SCRITTORE

Ho letto numerosi romanzi scritti da autori italiani e ambientati negli USA, ma ho apprezzato soltanto Joshua di Massimiliano Riccardi e poche altre opere trattate con la medesima cura. In questi libri, l’ambientazione americana era pertinente, poiché funzionale alla trama: le vicende non avrebbero potuto svolgersi altrove, perché sarebbero state private della propria credibilità.

Nella maggior parte dei casi però l’autore emigra con troppa leggerezza, si dimentica che l’ambientazione geografica di un romanzo, insieme a quella storica, costituisce il frame contestuale delle vicende narrate ed è quindi un personaggio a sé stante, interagisce con gli altri soggetti e contribuisce al significato globale dell’opera. La sua scelta quindi non va presa alla leggera, ma deve essere frutto di attente riflessioni e documentazioni approfondite. Optare per New York anziché per Milano impone una profonda comprensione della città, dei suoi riti, dei suoi miti e dei suoi simboli. Chi scrive deve, anche solo virtualmente, entrare a far parte di quel mondo. Senza tale fusione non può esserci immedesimazione. Senza immedesimazione, non può esserci verosimiglianza. Senza verosimiglianza si cade nel cliché.

E il cliché, a me, fa un po’schifo.

Il lancio della patata bollente
Avete mai ambientato una storia negli USA? Perché? (Siate sinceri!)
Prediligete la letteratura d'oltreoceano o quella europea?
Condividete la mia riflessione?

Commenti

  1. Chiusa da plauso incondizionato, e pure mi associo. C'era un tale, del quale scordo il nome, che asseriva: parla di quel che conosci. Sicché scimmiottare gli yankees per guadagnare o espandere pubblico è come se io mi tatuassi la farfallina all'inguine e dicessi sono Belen. (Vabbeh avrei potuto trovare un altro paragone, ma mi si è rotto il frigorifero e non sto in vena.) ;)

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    1. Fermo restando che ho un problema di connessione e devo aspettare di arrivare a casa per poter aggiungere l'interruzione e le domande di rito, conosco il principio che citi e lo condivido in parte. Se tutti lo applicassero alla lettera non esisterebbero i romanzi storici. L'errore che molti fanno, però, è credere di conoscere l'America per ciò che hanno visto nei film...

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  2. Trovo che certa letteratura americana di fascia alta abbia una potenza narrativa inarrivabile, cito Franzen e Eugenides, entrambi premi Pulitzer, tuttavia amo la narrativa italiana ed europea, non ho mai ambientato una mia storia negli USA non sono americaneggiante proprio per niente, amo il mio paese e i suoi artisti e questo scimmiottare LAMMERICA per cercare proseliti lo trovo puerile da matti, lo stesso dicasi per Parigi e Londra di molti romanzi di chick lit, non ho nulla contro la chick lit se ben fatta mi piace pure molto, in realtà ambientabili in qualunque parte del globo, compreso Sesto S. Giovanni perché non basta infilarci Tiffany e un Cup cake per parlare di un altro paese. Bacione Sandra

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    1. Concordo sul fatto che la letteratura americana abbia sfornato romanzi molto belli, ma gli scopiazzatori non si ispirano a questi, bensì ai romanzi commerciali di serie B, che mi hanno sempre annoiato. Stessa cosa per il chick-lit: ogni autore secondo me è connotato dalla propria specificità culturale, e dovrebbe metterla in evidenza anziché nasconderla.

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  3. ...le americanate, dici, quelle che non piacciono nemmeno a me, ovvero: dalle americanate alle cose all'italiana per "chiamata diretta". Stante il mio pensiero non esperto qui, desidero cogliere l'essenza dal tuo esemplare scritto dal mio angolo visuale sociologico che più mi sostiene e mi appassiona tra un "chi siamo e da dove veniamo". Venivamo da radici identitarie forti ed austere, ben certificate dalla Storia, comprese le disfatte, i prigionieri. Tutto è andato come doveva andare, o come abbiamo voluto, potuto, e, rimasti vivi, proprio sino agli anni '50 dello scorso secolo, con un popolo sì italiano, ma residuale che vuò fa' l'americano. Quell'Italia dei Totò, dei Peppino, dei Nino Taranto (ed altri antenati mediatici di quel tempo popolare volutamente indotto) nel tentativo di vendere persino la Fontana di Trevi, metafora fina e definitiva conferma della politica assistenzialista del Paese, ma ne ridevamo. Attuare il Piano Marshall - tra cibo, persone ed anime - sollevati dalla fame, ci esonerava da responsabilità perchè ormai americacompravenduti. Le panze qui non sono mai piene ed in America lo sapevano, lo sanno con l'alibi della ricostruzione, nella benedizione di tutte le beneficenze. Noi, questuanti per religione e stato non participio passato, ma unico futuro c/terzi.

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    1. Fabrizia, vorrei scrivere qualcosa di sensato, ma non mi viene null'altro da dire che: chapeau. Continua a raccontare questa storia, se ti va. :)

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  4. troppo buona...pur constatando il mio grasso-grosso O.T.! Ho avuto, purtroppo, la presunzione di intendere una personalissima visione simil sociologica, escludendo il focus sulla letteratura da te proposto con sentimento e tecnica. Non è stata, nè sarà mai, presunzione, ma un fuori tema aperto, tanta è la mia poca attenzione dal trattenermi sulla nostra condizione. Ti chiedo scusa, mentre ti ringrazio molto.

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    1. Non ti scusare: credo nel libero pensiero. Il blog è a tema letterario con qualche sconfinamento nel sociale, ma da tempo ho abbandonato le tematiche prettamente tecniche. Da allora sono arrivate anche tante persone che non si dilettano con la scrittura, e questo mi piace perché amplia il punto di vista. Quindi sei libera di scrivere tutto ciò che desideri. :)

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  5. A me piace molto la letteratura statunitense, e credo che si sia capito. Ma amo anche quella del Nord Europa, per esempio. Non ambienterò mai nulla negli Stati Uniti. Ci dovrei andare, soggiornare per un po', perché scrivere di qualcosa che non ho almeno "odorato" mi pare follia pura. E siccome probabilmente non ci andrò mai... Il problema non si pone! :)

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    1. La letteratura che adori tu, come ho scritto in risposta a Sandra, è di un altro livello rispetto al filone commerciale madre in USA contro cui mi batto da tempo, una letteratura che ho sempre percepito come povera di stile e di contenuti. Anche a me piace molto la letteratura del nord-europa. E ora sto apprezzando i belgi. :)

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  6. Ti seguo nell'osservazione di ciò che accade, ma mi distanzio sulle conclusioni. Non amo libri, film e musica italiani, salvo eccezioni; mi trovo benone con "le americanate", le inglesate e spesso anche con prodotti del Nordeuropa, o del lontano Oriente. Ambienterei senza esitazioni una mia storia all'estero, se sentissi di poter conoscere a sufficienza il contesto, cosa non facile ma nemmeno impossibile. L'ho fatto in due racconti per cui mi sono documentata, e ne sono stata contenta. Non credo che il gusto debba essere educato artificialmente. Come succede a qualunque essere umano, nel mio mondo arrivano stimoli di certi tipi e non di altri. Se li seleziono, lo faccio in base a quanto mi ci sento in sintonia, senza presupposti ideologici. Se il caso volesse che ti piacessero, proprio di pancia, le americanate & co., cosa faresti? Insisteresti a leggere/vedere/ascoltare altro? Estremizzo il ragionamento, perché ho spesso l'impressione che ragionando finiamo per teorizzare i nostri gusti, sebbene la tua opinione sia molto ben articolata, e tutt'altro che superficiale.

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    1. Se mi piacessero le americanate, probabilmente questo post non sarebbe mai esistito. Penso infatti di essere stata molto chiara fin dalle premesse, ribadendo che si tratta del mio pensiero e del mio gusto soggettivo, quindi qualcosa che non voglio imporre agli altri, ma condividere con sincerità e con onestà. Ogni persona è diversa dalle altre, e ogni scrittore ha un percorso artistico individuale. La diversità è ricchezza, ma questo non è un alibi per non dire ciò che si pensa. :)
      Sono comunque contenta che, pur nella diversità di opinioni, il mio post ti sia piaciuto.

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  7. Mi trovo molto d'accordo con te, in generale non amo molto le storie scritte da autori italiani ambientate all'estero, anche se io ho ambientato parte del mio primo romanzo a New York, ma era perché la protagonista lavorava in quella città per un certo periodo e poi perché il percorso di vita della protagonista si intersecava con determinati eventi della storia americana. Posso capire la scelta di Massimiliano di ambientare Jousua in America perché un simile serial killer si inseriva molto bene nell'ambientazione della provincia americana e il romanzo l'ho apprezzato, tuttavia io adoro i romanzi (e anche i gialli) ambientati in Italia per il semplice fatto che amo ritrovare pezzi di città che conosco tra le pagine di un libro, io stessa amo raccontare l'Italia, ma qui prevale anche la praticità di parlare di luoghi che conosco. Poi amo anche i romanzi stranieri scritti da stranieri perché parlano dei 'loro' luoghi dal loro punto di vista ed è questo che spesso mi affascina.

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    1. Secondo me far viaggiare un personaggio italiano è diverso che parlare di un personaggio straniero. Una scena del mio romanzo è ambientata in Spagna, ma ciò non compromette la natura italiana della storia.
      Sono assolutamente d'accordo con te su quanto scrivi a proposito di Joshua, e anche sul leggere romanzi stranieri per conoscere meglio il mondo e la realtà dell'autore. Non voglio fare del campanilismo perché ci sono storie straniere veramente affascinanti. :)

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  8. nche io, per scarsa conoscenza della materia, esco dall'ambito letterario, riflettendo però sul tema del tuo post.

    Mi premeva fare due considerazioni:

    1) in ambito cinematografico l'Italia per me ha dettato legge a lungo. Parlo dei miei gusti personali: le grandi commedie come "Amici miei", ma anche generi più "bassi" come lo spaghetti western, il thriller e l'orrore. Film di registi come Pupi Avati (eh sì, come regista di horror ci ha regalato due capolavori), Aldo Lado, Lucio Fulci e Mario Bava - mi fermo a questi tre generi - ancora oggi danno quattro-cinque giri a tanti declamati film americani. Ma oggi come sta il cinema italiano? Non saprei. Ammetto di non aver visto "la grande bellezza": ma probabilmente finirei tra quelli che faticherebbero a capire diverse cose. Per il resto però il cinema italiano mi pare non riesca ad esprimere grandi valori: non tanto per i famigerati cinepanettoni (in fondo negli anni '70 c'erano anche i film con le tette di Gloria Guida e le battute sulle scuregge di Lino Banfi), quanto per quel tipo di cinema che mette a nudo i vizi della società italiana, ma senza riuscire a colpire nel segno (tanto più che, tra diverse pellicole viste, raggiunge maggiormente l'obiettivo un film sulla carta demenziale come l'Italiano Medio di Marcello Macchia);

    2) sulla musica il discorso è più complicato; premesso, personalmente rimango orfano dei miei miti assoluti De André e Rino Gaetano e mi consolo parzialmente con le rime di CapaRezza. Ma il pop italiano (la musica più diffusa) non è così lontana dal pop americano. E' un tipo di musica sfornato con lo stampino. Nel contempo ai piani alti viene mosso denaro affinché certi artisti abbiano forte eco nelle radio, perché il consumatore musicale tende a essere influenzato dalle radio. Su questo sono molto informato. Il problema non è dunque una mancata valorizzazione del prodotto italiano; è la mancata valorizzazione del prodotto italiano di qualità (Samuele Bersani in radio passa pochissimo, ad esempio). Sui deejay sai che gli americani sono indietro? Domina l'Europa: Calvin Harris (Scozia), l'ondata di dj francesi (cito The Avener, Kungs, Snake e Michael Calfan, Sinclar e Guetta iniziano un po' annaspare e Solveig è sparito un po' dai radar, almeno in Italia), i tedeschi (la leggenda Kalkbrenner, ma anche Robin Schulz, Wankelmut, senza dimenticare la scuola svedese (Axwell, Ingrosso, Avicii ecc.) e quella olandese (Afrojack, tiesto, Hardwell, Van Buuren). Comunque è un tipo di musica "emozionale": ci sono dei pezzi che personalmente provocano emozioni, così come un grande pezzo cantautoriale. Sono due tipo di emozioni diverse. Ma da provare entrambe. Poi chiaro se ascolti un pezzo di David Guetta, ahahah, puoi tirare lo stereo fuori dalla finestra.

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    1. Sono d'accordo con te sul fatto che il cinema italiana abbia subito negli ultimi anni una battuta d'arresto. Autori come Ozpetek e Virzì, che ho sempre apprezzato, hanno notevolmente impoverito il proprio stile. E da quando ho lasciato Milano non riesco più a seguire come un tempo la cinematografia d'essai. Ricordo con nostalgia il periodo in cui gironzolavo alla ricerca di film indipendenti. Purtroppo la vera cultura in Italia è poco valorizzata, e lì mi collego al discorso sulla musica.
      Quanto dici a proposito delle radio, mi fa venire in mente un aneddoto. Cinque anni fa, a Sanremo, partecipò un ragazzo uscito da Amici di nome Pierdavide. Tra tutti i "talenti" usciti dalla trasmissione fu l'unico a piacermi davvero. Era (è)un cantautore; partecipò in coppia con Lucio Dalla poco prima della sua scomparsa. La canzone si intitolava Nani', ricordava un po' De Andrè. E lui aveva pure una bella voce. Ebbene: in quel periodo lavoravo in un ufficio dove c'era sempre la radio accesa, ma ricordo di non averla mai sentita nemmeno una volta. Il cantautorato in Italia tira poco, anche quando legato in qualche modo ai talent.
      Dei deejay che hai citato conosco solo Sinclair. Nel 2010 suonò in un locale di Sanremo, la stessa sera che fu ospitato al Festival. Pur non essendo un'amante delle discoteche e della musica commerciale confesso che mi piacque moltissimo. Lui ha un'energia davvero incredibile, fu nel complesso una serata molto divertente.

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    2. Visto? :) i deejay in fondo fanno una cosa diversa da un cantante\cantautore. Ti consiglierò un po' di brani da ascoltare :D

      Pierdavide Carone lo ricordo bene, ai tempi di Amici ne parlavano bene: sparito letteralmente. Ma non tanto per essere un cantautore: uscito da un talent, non aveva padrini e madrine, quindi non ha avuto la stessa visibilità di altri.

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    3. Guarda, a essere sincera quella di Sinclair e soci è un tipo di musica che può fare da sfondo a qualche serata, ma non riesco ad ascoltare in contesti privati perché non mi trasmette nulla. Tra i prodotti musicalmente più inutili, cito comunque Rihanna...

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    4. Rihanna è proprio esempio di musica prodotta in fabbrica :D. Pensa che le ultime sue canzoni, "stranamente", hanno fatto flop. Beh, chiaro, una volta hai Calvin Harris che ti para il posteriore, una volta canti con i coldplay, una volta con quello, con quell'altro, poi alla fine ti ritrovi che non sai più cosa fare. E sei lì magari a galleggiare giusto perché ti fanno qualche foto i paparazzi..

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    5. Katy Perry, idem con patate. "Roar" è una canzone passabile, "Fireworks" no, ma mi ricorda un bel viaggio, quindi la salvo. Il resto, è noia pura.

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  9. Per certi versi stiamo ancora vivendo l'onda lunga-lunghissima del vittorioso sbarco in Normandia. Stimo che a quei tempi l'Europa oppressa guardasse oltreoceano nella viva speranza che arrivassero i nostri.

    Be', i nostri sono arrivati. Ci hanno salvato il lato B e in cambio hanno velatamente imposto il loro dolcissimo "american way of life".

    Che purtroppo (o per fortuna, dipende dal decennio e/o dal punto di vista) include anche la letteratura.

    Ancora oggi, tutto ciò che sa di America ha ancora il gusto di "essere avanti".

    Io ho ambientato una storia in America. Ma il mio intento era (è e sarà) quello di far vedere tra le righe che in fondo gli americani (e tutto ciò che è americano) non è roba dell'altro mondo, roba inarrivabile.

    Semplicemente stanno dall'altra parte dell'oceano.

    :-D

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    1. Ci hanno salvato il lato B e in cambio hanno velatamente imposto il loro dolcissimo "american way of life". Parole sante, ma di più: l'America ha sempre influenzato le sfere di potere, in modo molto incisivo.

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    2. Darius, forse il mio commento è off-topic, ma hai notato che tutti i film italiani vincitori di Oscar strizzano in qualche modo l'occhio agli USA? Volenti o nolenti, stiamo continuando a pagare il debito. :)

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  10. A me piace leggere i libri di scrittori stranieri e la mia libreria ne contiene parecchi, ma a ben vedere sono altrettanti quelli italiani (dopo la nostra ultima discussione sono andata a verificare). Ho di tutto: nordeuropei, turchi, giapponesi, amo immergermi in mondi anche molto lontani dal mio, "assaggiare" culture diverse. Un altro discorso è la scrittura "esterofila" di autori italiani: tranne che non si abbia una conoscenza diretta di certi luoghi perché si è vissuti fuori o perché si sia cultori di essi, il giovane scrittore che racconta di John e Jennifer perché fa più figo non lo capisco e non mi piace.
    Dal canto mio, io non penserei mai di ambientare una storia contemporanea fuori dall'Italia, avrei difficoltà ad allontanarmi perfino dal contesto geografico in cui mi sento più ferrata.
    Però, sentire i profumi dell'oriente, svegliarmi con le nevi della Norvegia o immaginare certi luoghi che non visiterò mai sicuramente aumenta il piacere delle mie letture.

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    1. Forse il mio post ha dato adito a fraintendimenti, perché anch'io,nonostante la prevalenza di autori italiani, leggo diversi romanzi stranieri, ed extraeuropei. Mi piace molto Elif Shakaf (turca), Carolina De Robertiis e Isabelle Allende (sudamericane) e, da ragazzina, apprezzavo moltissimo Banana Yoshimoto. Tuttavia, non so perché, mi sento molto distante dalla letteratura americana più commerciale: non sono riuscita a farmi piacere nemmeno Dan Brown! :)

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  11. A me sembra che, in ambito libresco, le cose stiano migliorando e gli autori italiani siano un po' più valorizzati di una decina di anni fa.
    Detto questo, in ogni campo l'America sforna capolavori e cose terribili. Personalmente in letteratura sono onnivora, per la musica cantautori italiani tutta la vita (però i Queen non si toccano), ma amo il cinema classico americano. Quello italiano degli ultimi anni, tolti pochi registi (Sorrentino e Moretti per quel che mi riguarda, ma Fellini, per dire, rimane su un altro livello) lo trovo provinciale e dozzinale, le classiche commedie insipide che vengono sfornate a ripetizione in cui tutti sono se non ricchi almeno benestanti e tranne un unico personaggio sfigato che fa lo sfigato gli altri sono pure tutti belli (l'ultima che ho visto "perfetti sconosciuti") le trovo irritanti.
    Per l'ambientazione, si può parlare solo di ciò che si conosce a fondo. E questo per me esclude l'America, ma magari potrei ambientare qualcosa in Corsica. Insomma, dipende anche dalle proprie esperienze di vita.

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    1. Anch'io adoro i Queen! Ieri io e Beppe abbiamo messo tutto il "best of". Il mio riferimento non voleva essere una critica a Freddie (che è naturalizzato inglese, tra l'altro, non americano) ma evidenziare come anche in ambito musicale dilaghi una sorta di esterofilia.
      "Perfetti sconosciuti" secondo me è un film con un'idea geniale gestita malissimo. E credo che il finale sia il più brutto nella storia del cinema. Però gli attori uomini presenti nel cast mi piacciono tutti, soprattutto Giallini e Battiston. Quest'ultimo era presente in uno dei film italiani a mio avviso più piacevoli degli ultimi dieci anni:"si può fare", con Claudio Bisio. :)

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    2. Infatti il film si salvava per la recitazione, ma parliamo di scrittura e regia? Appartamento altoborghese, la crisi economica questa sconosciuta, i "segreti" quasi tutti tradimenti, reali o immaginati, approfondimento e riflessione sull'oggi zero. Regia funzionale, per carità, ma neppure un guizzo, manco a pagarlo. E il fatto che l'idea fosse geniale mi ha intristito un sacco. Ecco questo genere di narrativa (cinematografica o letteraria poco importa) che manda in vacca idee geniali per strutturare storie talmente impegnate a non spiacere a nessuno da risultare più innocue di un soprammobile di pezza.

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    3. Sì, concordo. Tutti ricchi e belli; tutti con scheletri nell'armadio. La focalizzazione sulle dinamiche comunicative era buona, ma quella sulle dinamiche sociali nulla. E c'erano anche tante incongruenze: al sabato sera può chiamarti l'ex in crisi, ma non il tecnico del pc e l'ospizio...i poveri lavorano mentre i ricchi se la godono?
      C'è anche da dire, però, che spesso le indagini sociali da me tanto apprezzate sono poco gradite da un pubblico che cerca intrattenimento light, e spesso scambiate per "paraculate". Ci sono pareri molto soggettivi, nel definire cosa sia ruffiano...

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  12. Buonasera Chiara, d’accordo con te (ti do del tu se me lo permetti) quando affermi che la conoscenza della letteratura straniera è filtrata dalle, più o meno buone, traduzioni che ci impediscono di penetrare l’opera nella sua essenza. Non sono uno scrittore ma da lettore non cerco per forza un “tipo” di storia, ma diverse forme di narrazione in una continua espansione di ciò che conosco, naturalmente dovremmo leggere tutto nella lingua originale ma non sempre è possibile.
    Il concetto è differente se applicato alla musica, oltre ai testi c’è la melodia, la musica è assolutamente senza confini e ci permette di viaggiare senza alcuna frontiera.
    Oltre ai già citati Queen amo Battiato fin dai suoi primi album ma allo stesso tempo ascolto interpreti completamente diversi tra loro da Enya agli AC/DC, De Gregori e i Dire Straits, Guccini, Dylan, il Blues, il Jazz, fino ai capolavori della musica classica.
    Il tuo interessante e intelligente articolo ci da infiniti spunti di riflessione, da cinefilo occasionale evito qualsiasi riferimento alla settima arte, non posso che ampliare la mia conoscenza leggendo le tue riflessioni e quelle di chi, partecipando alla discussione, offre spunti interessanti.
    Complimenti per le idee e per come vengono esposte.
    Buon fine settimana
    Romualdo

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    1. Buongiorno, Romualdo.
      Certo, diamoci del "tu", qui sul blog il clima è sempre stato amichevole e informale.
      Sono d'accordo sul fatto che la musica non è solo testo, ma comprende altri elementi. Io infatti ascolto anche musica straniera. Ho un ipod con più di mille pezzi, che ascolto in auto con la Usb e la selezione casuale: ciò che arriva, arriva. E credimi che ho davvero di tutto.
      Sono contenta che il post ti sia piaciuto.
      Buona giornata

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  13. Quel romanzo su Amazon ha avuto anche 1 stella, in cui il tipo diceva che gli sembrava familiare, ma non aggiungeva altro.

    Io per certi versi sono filoamericano e per altri antiamericano. Vedo film quasi esclusivamente americani, perché per me sono gli unici che li sanno fare. Ascolto musica straniera, mai italiana perché mi deprime e rattrista (idem per i film italiani, a meno che non siano i vecchi film con Totò, Sordi, Fabrizi, Tognazzi, e compagnia).

    Quest'anno su 22 autori letti 10 sono americani e solo 2 italiani.

    Noi abbiamo un enorme patrimonio culturale (anche io parlo degli americani come di un popolo senza storia), ma adesso per quanto mi riguarda non abbiamo nulla da offrire.

    Come ho scritto più volte, a me l'Italia odierna non piace, anzi non la sopporto proprio. Quindi se gli autori italiani moderni scrivono storie ambientate in Italia in questi periodi, io sono costretto a evitarle. Ma leggerò volentieri le storie di Pirandello (che ho già letto), di Verga, di Manzoni, di Svevo. Dei nostri autori classici, anche antichi. Ma quando leggo non voglio assolutamente tornare nell'Italia di oggi, che disprezzo. Quando leggo, voglio stare bene e passare ore piacevoli.

    Tra Freddie Mercury e Jovanotti ci passa una galassia, non un oceano :)
    Jovanotti neanche canta, poi, parla.

    Di un tema del genere parlai anche io agli inizi del blog, più o meno: quando iniziai a scrivere racconti, erano tutti ambientati negli USA, proprio per ingenuità e poca esperienza. Ora ce li ambiento solo se davvero necessario.

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    1. Se devo essere sincera, Freddie Mercury e Jovanotti sono i due primi nomi che mi sono venuti in mente, e sono poco importanti. Il senso del discorso è che lo straniero sarà sempre meglio dell'italiano, a prescindere. :-)

      I film americani a me piacciono poco, a parte qualche commedia brillante (es. Woody Allen) e qualche buon dramma metropolitano, stile Spike Lee. In generale non amo il cinema che punta troppo sugli effetti speciali; sono più sensibile a un'estetica europea.

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  14. L'articolo che hai scritto lo trovo molto interessante, intanto ti ringrazio per la citazione del mio romanzetto e per il gradimento che esprimi. Per il resto mi trovo in sintonia con il tuo pensiero, ti sembra strano? Ho scritto un romanzo ambientato nell'America rurale, dovrei essere lapidato per alcuni. La critica la faccio a chi descrive scenari inverosimili che sembrano rubati da una telenovela o dalla pubblicità dei canali satellitari.
    Non voglio giustificarmi perché lo trovo insensato, posso solo dire che dietro c'è molto lavoro di ricerca e di contatti reali con persone che in quei posti ci hanno vissuto. Ribadisco una frase di Zavattini che ho utilizzato quando presentai il libro: "il tentativo non è quello di inventare una storia che somiglia alla realtà, ma di raccontare la realtà come se fosse una storia". Mettici anche che io ho dovuto decontestualizzare per non perdere il senno, vista la tematica e i mille riferimenti personali distribuiti sui vari personaggi. Penso, credo, che un autore debba essere libero di proporre la sua storia senza preoccuparsi dell'impatto sul pubblico, ovvio, il rischio di cadere nel cliché, o nella banalizzazione, è altissimo se si propone qualcosa che non è immediatamente riconducibile alla presunta esperienza di chi scrive. Nel mio caso, se avessi firmato il romanzo con un nome fittizio sono sicuro che nessuno si sarebbe posto il problema (pensa… Joshua di Richard Stark). Quindi? Quindi credo che ogni discussione in merito alla narrativa debba essere incentrata sulla storia, se è bella, ben scritta, interessante, piacevole, e tutto ciò che attiene al gradimento o meno. Trovo speciosi i discorsi sull'inefficacia se legati all'etnia dell'autore, abbiamo mille esempi di stranieri che scrivono dell'Italia descrivendoci non tanto per ciò che siamo ma per come immaginano che sia l'italiano. Mi viene in mente Il Padrino, dove veniamo tutti dipinti come folkloristici portatori sani di coppola e lupara sulla spalla. Nessuno trova da dire, ovvio, la storia nel suo insieme è fantastica e le caratterizzazioni fanno parte del gioco. Mi viene in mente Salgari, che non si è mai mosso da Torino, eppure… Per concludere, non voglio annoiare oltre, penso che l'appunto debba essere fatto se si vuole far passare per narrativa contemporanea ciò che è anacronistico piuttosto che inverosimile, lontano da ciò che realmente è il sentire di quello che si descrive. Penso che uno scrittore Neo Zelandese, se sa bene ciò di cui parla, possa tranquillamente ambientare un romanzo nella mia città, Genova, la multietnica e multiforme stratificata Genova.
    Amo la letteratura con una chiara impronta europea, non lo nego, come scribacchino amo però mettermi in gioco e mettere le palle sul ceppo, la mia parentesi "americana" è stata una sfida, vinta o non vinta non posso dirlo ora, non si è ancora conclusa ma è, appunto, una parentesi. Da un autore mi aspetto onestà e verosimiglianza, una bella storia che mi susciti emozioni, poi se per caso è paraplegico e non esce mai di casa ma riesce a farmi sognare con mirabolanti avventure … beh … credo che il problema non dovrebbe nemmeno esistere se c'è qualità narrativa. Cazzarola, almeno salviamo la fantasia che di cronisti e critici del lavoro altrui ne abbiamo a bizzeffe.

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    1. Ciao "Max Richards", sono contenta che il mio post ti sia piaciuto.

      Come ho evidenziato nel post, il tuo romanzo costituisce un'eccezione alla regola, sia perché l'ambientazione è curata nel dettaglio, sia perché prende spunto da eventi di storia americana (vedi guerra nel Vietnam) sia perché il contesto e la trama costituiscono un tutt'uno, sono inscindibili. La mia critica va a opere che prendono una storia di natura tipicamente italiana, la sradicano dal proprio contesto e la sbattono in America perché "fa figo". Il tutto, senza alcuna documentazione.
      Non ritengo sbagliato a prescindere ambientare una storia all'estero, ma se uno decide di farlo deve, secondo me, conoscere la location come se fosse il quartiere in cui vive. Ma non solo: deve conoscere il pensiero della gente, lo stile di vita, i gusti alimentari, il modo di parlare. Tutto ciò, a prescindere dalla nazionalità dell'autore: uno dei primi post pubblicati qui sul blog (questo: http://appuntiamargine.blogspot.it/search?q=piccolo+gesto+crudele) criticava un romanzo scritto da un'autrice inglese e ambientato in Italia, per l'immonda quantità di luoghi comuni che conteneva.

      Inoltre, il principio non vale solo per l'ambientazione geografica, ma dev'essere applicato anche, per esempio, quando si decide di narrare fatti avvenuti un'epoca precedente: non bastano due carrozze e tre cavalli per fare "1800"...

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    2. Vero, è per questo che l'articolo mi è piaciuto, sei stata molto critica ma dettagliando e specificando. È vero anche che quelli come me, quelli che giocano a decontestualizzare, corrono rischi grossissimi in termini di ridicolo. Per adesso, forse per ancora uno o due romanzi (forse soltanto con uno e poi basta), voglio ancora divertirmi con l'ambientazione americana. È solo un gioco, un modo per preparare il terreno ad altro, è una scuola, un modo per sperimentare e saggiare il terreno. Non ho fretta. Non bisogna avere timori reverenziali quando si scrive. Se piaci bene, se non piaci... si migliora si tirano i remi in barca e si rivede il proprio approccio alla scrittura. Marguerite Yourcenar ci ha messo 40 anni prima di presentare la stesura definitiva delle sue "Memorie di Adriano", e io che sono un piccolo scribacchino da diporto devo pormi il problema? C'è tempo e modo per crescere, sempre.La scrittura è divenire, per sua natura.

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    3. Cosa intendi per "decontestualizzazione"?

      Io penso che, quando l'ambientazione ha un ruolo nella narrazione, debba saper coniugare l'universale e il particolare. I sentimenti dei personaggi e le loro emozioni sono associabili all'umanità nel proprio complesso, ed è questo che consente l'empatia. Nello stesso tempo, però, la presenza di un'ambientazione solida consente di dare solidità alle vicende.

      Concordo anche su quanto dici a proposito dell'importanza di provare e riprovare continuamente. Un autore non dovrebbe censurarsi mai, e dovrebbe essere pronto a scrivere le peggiori schifezze esistenti al mondo, se queste servono per la sua crescita. Eppure noto quotidianamente una fortissima paura della sperimentazione. :-)

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    4. Intendo astrarre dal contesto di vita quotidiana, dal personale vissuto e spostare in altri luoghi la vicenda, luoghi che non sono immaginari ma che in qualche modo ho fatto miei, motivo per cui tutto appare verosimile e realistico. La pericolosità di apparire uno che scimmiotta c'è. Ho scelto di non porre limiti alla mia voglia di narrare e ho dato fiducia al lettore confidando nella sua intelligenza nel capire che una volta messi su carta Joshua, Dumpsey, Carlile ecc... erano diventati di qualcosa di vivo e reale. Perché sono vivi e reali. Mi sarebbe tanto piaciuto essere letto senza che ci fosse il mio nome così italiano sulla copertina, probabilmente tanti pregiudizi non sarebbero mai usciti fuori. È stato il mio modo di sperimentare, come dici tu. Per il futuro vedremo. Anche tu tieni duro e prosegui nel tuo cammino.

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